Eureka: la capitale del design italiano finalmente ha trovato casa. Dopo mezzo secolo di discorsi, polemiche, dibattiti, convegni, dunque, i simboli del made in Italy, gli oggetti culto di intere generazioni di tutto il mondo, hanno trovato un tetto. «Per capire l’Italia, bisogna capire il suo design», poche parole per dare l’idea dell’importanza di quel «tetto».
L’indirizzo? Milano, viale Alemagna 6, Palazzo della Triennale Design Museum, primo piano. Questa la sede, inaugurata ieri in pompa magna, del Museo nazionale del Design, che non poteva che essere ospitato nella capitale milanese (guarda il sito della Triennale) Una Triennale messa a nuovo, o meglio riportata alle origini, da Michele De Lucchi che ha curato tutto il restauro del palazzo e l’adeguamento museale. Un viaggio a ritroso fra strati di calce e mattoni e storia che hanno portato l’allievo di Muzio a scoprirne la lungimiranza e la forza anticipatrice: «Il palazzo dell’arte - racconta Michele De Lucchi - era innovativo ai suoi tempi, siamo nel 1934, ed è predisposto in modo tale da far pensare che Muzio avesse previsto l’assetto attuale. Dalla vetrina, ai buchi e agli spazi per l’impianto di riscaldamento: lui aveva previsto tutto. Dal ponte, che è stato naturale far “venire fuori”, alla vetrina - attuale ingresso del museo - anch’essa preesistente. Ho trovato delle foto che mostrano Muzio nel cantiere, che guarda proprio in quella direzione. Insomma, Muzio non ha fatto il ponte solo perché non disponeva della tecnologia adeguata».
Muzio nel ’34 fece due disegni: uno reale e uno virtuale, che proprio ieri hanno trovato duplice e contemporanea realizzazione. Il ponte, in vetro e bambù, tra reale e virtuale, tra passato e presente, trova, dunque, il suo compimento nella struttura stessa: la passerella, infatti, è semplicemente incastrata tra le due pareti. Non solo, la balaustra che è stata tagliata per permettere il collegamento, fa bella mostra di se, lì accanto, quasi fosse il monito di Muzio: «Dal futuro, che è il presente, si può sempre tornare indietro».
Basta varcare la soglia-vetrina, in realtà, per tuffarsi nel passato: Vespa, Lambretta, la Moka Bialetti, la Lettera 22, Isetta, nomi che fanno lo stesso effetto della madeleine di Proust, suscitando in ogni visitatore un intreccio di ricordi, immagini, suoni declinata per ognuno in contesti, colori e situazioni diverse. Un bel vantaggio per un museo che si pone l’ambizioso obiettivo di essere «emozionale e coinvolgente - per dirla con le parole del direttore Silvana Annicchiarico -: tanto coinvolgente da innescare nel visitatore il desiderio di ripetere l’esperienza».
Un’esperienza multisensoriale, quella che si prova passeggiando per la «curva» in cui si snoda il percorso: la memoria, gli occhi, l’udito sono coinvolti. Sulle candide pareti del Palazzo dell’Arte scorrono in un flusso continuo immagini, spezzoni di film, video, con accompagnamento musicale, che avvolgono i visitatori in un’atmosfera magica. Questa è la vera sfida di Italo Rota, che ha curato l’allestimento, e di Peter Greenaway, Antonio Capuano, Pappi Corsicato, Davide Ferrario, Ermanno Olmi, Silvio Soldini, Mario Martone e Daniele Lucchetti, che firmano le cinematografiche scenografie.
Questo museo rompe gli schemi della tradizionale e prevedibile museografia: «Più che definire un ordinamento classificatorio tradizionale - spiega il direttore Annicchiarico - abbiamo lavorato per mettere a punto una vera e propria rappresentazione in cui le icone e gli oggetti del design saranno i protagonisti. E tutto questo cambierà a scadenza periodica: ogni volta, a distanza di 12-18 mesi cambierà il tema chiave, l’ordinamento scientifico e l’allestimento, con l’intento di fare del museo un organismo vivo e mutante». «Vogliamo proporvi - dicono Italo Rota e Peter Greenaway - un museo-installazione: il nostro obiettivo è creare un’esposizione autoriflessiva che faccia vedere il significato degli oggetti del design nell’ambiente originale della loro orgogliosa progettazione».
Si parte quindi dalla domanda fondamentale «Che cos’è il design italiano?», che viene declinata nelle sette ossessioni del Design italiano - questo il titolo di questo primo allestimento - che sono «I grandi borghesi e la sacralità del lusso», «Il superconfort», «La dinamicità», «La democrazia impilabile», «La luce dello spirito», «I grandi semplici» e «Il teatro animista», per interrogarsi, poi, su aspetti, temi, argomenti che hanno attraversato, a volte su filoni paralleli, la storia del disegno industriale. Segno distintivo della natura nazionale del Museo è la sua capacità di espandersi, attingendo ai fondi dei giacimenti, le fabbriche-museo, sparse sul territorio, éscamotage che fungerà da staffetta culturale tra le varie «case».
«Quando mi è stato chiesto di interpretare la sezione “I grandi semplici” - racconta Ermanno Olmi - mi sono guardato intorno per casa e ho visto tanti oggetti: alcuni sono oggetti che vengono usati, altri stanno lì e apparentemente non hanno significato. Poi ho capito: stavano lì perché belli. Allora mi sono chiesto: se la mia casa è un museo, perché un museo non può essere una casa?».
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