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«Troppi violenti, non riconosco più la mia Tahrir»

«Troppi violenti, non riconosco più la mia Tahrir»

Il CairoUna piazza torbida, dove la protesta vera degli attivisti, di uomini e donne che hanno fatto la rivoluzione a febbraio, si mischia troppo spesso con il dissenso violento di centinaia di giovani arrabbiati, pronti allo scontro più che al confronto, e degli ultras delle squadre di calcio. Dal suo appartamento a pochi metri da piazza Tahrir, Hisham Kassem - attivista democratico e oppositore della prima ora del regime Mubarak, editore controcorrente - poco prima dell’annuncio della formazione di un governo di unità nazionale spiega perché vorrebbe che le forze politiche svuotassero la piazza e si concentrassero sul voto. Kassem, ex vice presidente del partito di opposizione Al Ghad - che ha dato a Mubarak il suo primo vero rivale a un’elezione presidenziale, Ayman Nour - è stato editore e fondatore del primo quotidiano indipendente del Paese, Al Masry al Youm, in un Egitto dove i giornali sono stati per decenni soltanto organi della propaganda di regime. Al Giornale dice che alla rivoluzione egiziana occorre oggi un po’ di modestia.
Cosa pensa di quello che sta succedendo in piazza Tahrir?
«È una stupidata. Sono arrabbiato con gli attivisti per quello che stanno facendo. Oggi, soltanto 200 persone hanno il diritto di essere lì: i parenti delle vittime della rivoluzione che non hanno ancora avuto giustizia, i giovani rivoluzionari che però hanno scelto di delegare la politica ad altri. Che diritto hanno gli altri 15mila di deragliare il voto di milioni?».
Piazza Tahrir è la stessa di febbraio?
«Non so chi siano molte delle persone a Tahrir e non capisco cosa vogliano. Sparare sulla folla come fa la polizia non è mai giusto, ma neppure cercare di riformare il ministero dell’Interno prendendolo d’assalto. Ho lottato per anni contro le politiche del ministero dell’Interno, ma non ho mai tentato di bruciarlo. Ci vuole tempo per le riforme, le aspettative del post-rivoluzione sono troppo alte. Abbiamo un governo di transizione militare, che per definizione non può fare le riforme. Il Consiglio supremo dell’esercito non è qualificato né per governare il Paese né per fare le riforme, per questo si deve votare».
In piazza manifestano però contro un governo militare che non ha mantenute le promesse e usato metodi dell'ex regime.
«E chiedono la formazione di un governo di unità nazionale. Dove è il suo mandato? Dovrà prendere decisioni dolorose, fare riforme. Occorre un esecutivo eletto. Le forze politiche della rivoluzione dovrebbero rifiutare quello che accade a Tahrir e andare avanti con il voto. Ci vuole un po’ di modestia: all’inzio di quest’anno Hosni Mubarak era lì seduto sul mio petto e non mi faceva respirare, ora stiamo parlando - nello stesso anno - di eleggere un presidente».
Perché in Egitto, a differenza di Libia e Siria, non è stato formato un comitato che riunisce le voci della rivoluzione, capace di canalizzare le richieste della piazza?
«In Libia e Siria è stata la violenza a costringere le opposizioni alla formazione di consigli nazionali.

Quello che succede in Tunisia ed Egitto è più civile e democratico: si vuole consegnare il potere a un governo eletto».

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