Tutti gli alibi di Malta, l’isola degli egoisti

Il giorno dopo Malta non ha nulla di cui vergognarsi. È quello che ripete ogni quattro parole il ministro dell’Interno Carmelo Mifsud Bonnici. Risponde dopo pochi squilli di telefono. Ha voglia di spiegare, raccontare la versione di Malta: «Abbiamo ricevuto l’allarme dal barcone, abbiamo girato la richiesta all’Italia. Tutto secondo le regole del diritto internazionali. Non abbiamo niente di cui giustificarci. È vero, quell’area era di nostra competenza. E infatti abbiamo coordinato le operazioni». Malta che si limita a girare la chiamata, a avvisare, a dare la posizione del barcone in avaria. E aspettare.
È notte fonda quando a La Valletta arriva l’appello disperato dei naufraghi. Stanno affondando, il vecchio barcone imbarca acqua, le onde sono alte fino a tre metri. A bordo è il panico. Ci sono donne, bambini. Bisogna intervenire e in fretta. Malta non si muove. Coordina le operazioni. Chiama l’Italia. Arrivano le nostre motovedette, un peschereccio siciliano. La gente a bordo si ammassa per salire sulle scialuppe di salvataggio. È l’orrore. Cadono in mare, uno a uno trascinati nel gorgo. Si salvano in 51 gli altri affondano, inghiottiti dal mare in tempesta, dal buio, dal freddo. Ieri le ricerche sono continuate, ma affiorano solo cadaveri. Non si sa neppure con precisione quante persone erano a bordo. Erano e rimarranno fantasmi senza nome.
È la più grande tragedia in mare degli ultimi tempi e si consuma nelle acque di competenza di Malta, ma Malta non c’è. «Ma noi eravamo molto più lontani», spiega Bonnici. È il solito copione: Malta si difende. Malta piange. Malta dice che non è vero. «Non ce ne siamo lavati le mani, il nostro centro ha subito inviato la chiamata a Roma». Non c’erano uomini o mezzi a soccorrere i naufraghi, ad aiutare gli italiani nelle operazioni di recupero. Le regole vanno rispettate, ma c’è un codice d’onore in mare che dovrebbe andare oltre. Se c’è un uomo in mare lo salvi. Stop. Se sono tanti ancora di più. Malta invece si appella al diritto. E la risposta è sempre la stessa: «Le regole internazionali risalgono al 1979. E in questi anni tutto è filato liscio».
Insomma, tutto liscio proprio no. Era il 2009 quando l’Italia litigava con Malta per gli immigrati. Oggi come allora c’era un’emergenza da gestire, da condividere. Malta misurava confini e zone di competenza. E toccava sempre all’Italia. Ma non era la prima volta: già nel 2004 la nave Cap Anamur era stata palleggiata per ben 21 giorni tra Roma e La Valletta. Nessuno voleva cedere perché a bordo c’erano 37 clandestini provenienti dalla Libia. Anche in quel caso la nave aveva finito per attraccare in Sicilia. Stessa scena nel 2009 con il mercantile turco Pinar. Il mercantile aveva recuperato 140 clandestini naufraghi. Malta si era rifiutata fin dall’inizio di accogliere la nave. L’imbarcazione era rimasta ferma per giorni, in mezzo al mare, senza cibo, con pochissima acqua. La situazione si era sbloccata solo quando Roma si era decisa a cedere. Anche quella volta l’odissea era finita approdando in Sicilia. Allora Maroni, stanco dell’ennesima prova di forza, aveva preparato un dossier da mandare all’Unione europea: tutte le scorrettezze di Malta contro l’Italia indicate una per una, con tutte le volte che La Valletta si era voltata dall’altra parte: «L’egoismo di Malta ci costa più di tre milioni», sbottava il ministro «Quasi 700 interventi fatti al posto di Malta». Malta dimentica o finge di non vedere: eppure è lei ad avere la fetta più grande di mare da pattugliare. È per questo che nel 2009 aveva a disposizione oltre 112 milioni di euro.

Fondi dell’Unione Europea che servivano per condividere gli sforzi, per vigilare nel Mediterraneo, per potenziare i mezzi di pattuglia. Ma Malta oggi ha le stesse risposte di allora: «Voi eravate più vicini, 30 miglia. Noi 100». La solita strategia del righello.

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