Tutti attaccati al tram della cultura

Il festival, di qualsiasi tipo sia, per definizione è una cosa che il primo anno «Ah, è geniale: ma come, non c’eri?, non sai cosa ti sei perso...», il secondo «Guarda, è davvero divertente...», il terzo «È così carino...», il quarto «Cosa vuoi, era più bello le prime volte...», il quinto «Credimi, se non ci vai non perdi niente». Il sesto, di solito, se sei un giornalista pagheresti per non andarci, e se sei uno spettatore paghi. Quindi non puoi che ripetere stancamente «Ma è straordinario!» o «Beh, qualcosa di interessante c’è...» a seconda dell’anzianità di servizio.
È tempo di festival, ma la festa è una noia. Ormai ce ne sono troppi e tutti uguali, si ripete a proposito di quelli letterari. O ci sono da troppo tempo e sempre uguali, a proposito di quelli cinematografici. Sempre perfettamente, tristemente, piattamente come da programma. Lo apri - il programma - e sai già cosa succederà, chi ci sarà, cosa si dirà, cosa si scriverà, su cosa si polemizzerà: sul pamphlet di un filosofo italiano ateo, sul romanzo di una scrittrice africana infibulata, sul film porno-zoologico di un regista portoghese onirico. Che noia essere colti.
Squadra che vince non si cambia, nemmeno le mutande. Formula vincente non si rinnova, nemmeno la brochure. La ricetta dei festival, come quella della torta della nonna, è sacra, immutabile, inconfondibile. E, per rispetto, non si può che assaggiarne ogni volta una fetta e ripetere sommessamente «Che buona...». Mentre ti stanno offrendo un precotto, o un surgelato. Il festival - della letteratura, della filosofia, della scienza, del giallo, del rosa, del noir, del libro o del cinema - ormai è un rito, e come tutti i riti sopravvive di comportamenti, formule e cerimonie - il red carpet, la lectio magistralis... - che rassicurano e uniscono, che perpetuano e tramandano. Peccato che la cultura (parola che sommessamente, visti i mala tempora, scriviamo con la “c” minuscola, come spesso la dimensione dei suoi protagonisti) è tale solo se è capace, ogni volta, ogni anno, ogni edizione, ogni reading, ogni proiezione, di spiazzare e dividere, di «rompere» e di rinnovare. Di stupire, semplicemente. I festival dovrebbero spiazzare. Ormai si limitano a portare la gente in piazza. Che non è esattamente la stessa cosa.
È scientificamente provato che dieci anni di «rassegne letterarie» (sinonimo molto simpatico e amato dagli addetti ai lavori, quasi come «kermesse») non hanno prodotto un solo - ripetiamo e senza usare sinonimi: un solo - nuovo lettore, ma solo «ascoltatori» di auto-presentazioni di libri, che anche qui non è proprio la stessa cosa. Ed è economicamente provato che soprattutto hanno sviluppato l’indotto di cittadine turisticamente in caduta libera e gonfiato la rassegna stampa degli assessorati alla Cultura e al tempo libero (sic). Ed è intuitivamente ipotizzabile che non abbiano neppure alzato in maniera sensibile il livello culturale medio del popolo italiano. Semmai lo hanno spocchiosamente illuso di essere più à la page, quando per esserlo basterebbe sfogliarne qualcuna di più, di pagina. E chi in questo caso sentenzia: «Sempre meglio che la gente vada a seguire un festival invece che allo stadio o al Mi-Sex» di solito è proprio la stessa persona che alla sera, invece di aprire un buon libro o vedersi un bel film, gira sul Processo del lunedì o aspetta la replica di Veline. La barbosa pornografia dei buoni sentimenti.
Poi c’è la pelosa antropologia del culturally correct: se si vuole organizzare il festival perfetto, ma davvero perfetto, allora serve, nell’ordine: un Nobel, perché se tra gli inviati non c’è un premio Nobel, meglio se terzomondista, dissidente o censurato in patria, non se ne fa niente; uno scrittore molto dandy e che parli bene in pubblico, meglio se porta i capelli lunghi e ha nel nome molte «ô» o una «ã» ma anche una «ë» va abbastanza bene; che sia stato un «caso letterario» nei Paesi Bassi a esempio, che notoriamente sono la punta di diamante della narrativa mondiale; poi chiaramente deve esserci Umberto Eco, o Umberto Galimberti in subordine, sperando che magari parlino male di un tipo equivoco, prima imprenditore e poi politico, che da quindici anni fa il bello e il cattivo tempo nel Paese basando il proprio potere sulla concentrazione editoriale e che da quando ha comprato l’Einaudi l’ha rovinata; e deve esserci in programma un dibattito su uno dei grandi temi dell’attualità, a scelta tra: cristianesimo e islam, i nuovi terrorismi, etica e bioetica. Due bio-palle. Se invece è una mostra del cinema, è ancora più semplice: bastano Brad Pitt, un bel pezzo di starlette in tacco dodici o una pellicola che contenga una sequenza scandalo che di edizione in edizione sposti sempre più avanti i limiti del comune senso della blasfemia. Progredire regredendo.
Che bella la fiera del Sapere! Venghino signori, venghino al luna park della cultura al prezzo di un tascabile autografato dall’autore-culto. Scegliete lo scrittore, staccate il biglietto e mettetevi in coda.
Paradosso delle buone intenzioni, pensati e voluti da persone che davvero amano l’arte e vogliono avvicinare il grande pubblico alla cultura, i festival alla lunga finiscono per assuefare le masse al prêt-à-porter della conoscenza, svenduta in taglie standard e pronta per essere indossata.

Magari solo per un week-end l’anno. Sempre lo stesso, peraltro.
E per il resto, come diceva quel mio amico alla sua decima presenza al festival, «sarebbe ingiusto negare qualche fascino agli scorci così suggestivi di Mantova».

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