«Tutti in pericolo ma i nostri militari meno a rischio»

«La missione in Afghanistan non è compromessa. L’obiettivo principale era restituire il Paese agli afghani e loro sono ormai in procinto di tornare a essere padroni del proprio futuro. Certo l’ideale era farlo in un clima di cooperazione armonica. Oggi questo clima non c’è più, ma la missione va comunque considerata riuscita e in via di completamente».
Il generale Vincenzo Camporini, 66 anni, ha ricoperto il ruolo di Capo di stato maggiore delle nostre Forze armate dal 2008 al 2011. In quel periodo s’introdussero in Afghanistan le correzioni strategiche che dovevano sanare gli errori del passato. La terribile strage di afghani messa a segno domenica da un soldato statunitense solleva molti interrogativi sul futuro della missione. E qualcuno ricordando i 49 caduti italiani parla di vite sprecate.
«Quelle dei nostri caduti non sono assolutamente vite sprecate - ribatte il generale Camporini in questa intervista al Giornale - il nostro scopo non era occupare l’Afghanistan e nemmeno instaurare rapporti fraterni con tutta la società afghana. L’obiettivo era rimettere in piedi il Paese e trasformarlo in un interlocutore credibile della comunità internazionale. Da questo punto di vista la missione ha funzionato. Il deterioramento nei rapporti tra truppe straniere e popolazione afghana è un problema, ma non equivale a un insuccesso politico strategico».
I nostri soldati ora sono più esposti?
«La missione è certamente più rischiosa perché ci possono essere reazioni anche da parte di singoli individui. Fortunatamente l’area di Herat è una delle zone con il tasso di violenza più basso e il nostro rapporto con le popolazioni locali è decisamente positivo».
Ma il Gulistan, Bakwa e Bala Murghab sono zone complesse...
«Sono ambienti molto isolati dove comunicare con la popolazione è decisamente difficile. Lì i rischi sono certamente maggiori».
Perché certe cose succedono sempre agli americani?
C’è un problema di selezione e di capacità di reclutamento. Gli Stati Uniti risentono sicuramente di un problema culturale. Da noi la cultura dell’uso della forza non è estremamente diffusa. In America non esiste questo freno. Da noi il diritto a possedere un’arma suona quasi come una bestemmia, lì è considerato un diritto fondamentale, una prerogativa costituzionale per la difesa delle libertà individuali».
Riusciranno a metterci una pezza?
«Sarà dura. Quest’uso della violenza fa perdere credibilità a tutta la missione. In America le stragi nelle scuole o sui posti di lavoro sono all’ordine del giorno, ma quando si trasferiscono al di fuori dei confini diventano un caso politico».
La Merkel esprime dubbi sul ritiro nel 2014. Perché?
«Forse vuol far capire che la Germania, come anche l’Italia, la Francia, l’Inghilterra, non abbandonerà il Paese allo scattare del 2014 e sarà comunque disponibile a fornire non solo aiuti operativi, ma anche consigli economico istituzionale».
La missione sembra ormai afflitta da inerzia strategica. Perché?
«La dottrina strategica disegnata dal generale McChrystal prima e da Petraeus resta immutata. Continua a basarsi su direttive molto stringenti, che però trovano applicazioni meno attente. Siamo di fronte a un problema di stanchezza operativa. Noi italiani ruotiamo le nostre truppe ogni sei mesi, i soldati statunitensi restano per periodi molto più lunghi e questo può incidere sulla capacità di resistere allo stress».
Per andarsene bisogna completare l’addestramento dell’esercito afghano.

A che punto siamo?
«Siamo ben oltre metà dell’opera. Ho dei dubbi sull’addestramento della polizia, ma siamo sulla strada giusta. Ci riusciremo se non vi sarà una frattura traumatica tra governo afghano e truppe straniere».

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