Tutti sotto coperta per svelare i segreti di Conrad

La gioventù bohémienne in Francia, il tentato suicidio a vent'anni, le idee politiche, lo scrivere come «storia interiore» che utilizza l'avventura come affermazione della Fedeltà

C'è un punto rimasto oscuro nella vita di Joseph Conrad, al tempo dei suoi nemmeno vent'anni, quando si chiama ancora Korzeniowski e ha da poco preso a navigare, mozzo, cambusiere e camerotto fra il Mediterraneo e l'Atlantico, il delicato soprannome di «Conte» affibbiatogli da marinai e ufficiali perché educato, elegante, pieno di buona volontà. Konrad, che allora è solo un nome con la kappa per iniziale, vive a Marsiglia, nobile esule polacco che sogna la Marina mercantile francese e vuole evitare la leva obbligatoria russa che gli imporrebbe venticinque anni nell'esercito dello zar. Fra un imbarco e l'altro, frequenta il Café Bodoul, sulla Canébière, la principale via della città, dorme poco, beve, spende (i soldi dell'assegno famigliare con cui dovrebbe mantenersi) e discute molto: di politica, di libertà, di donne... Il suo mentore è un ufficiale di marina corso, Dominic Cervoni, un nomade del mare, i suoi amici un avventuriero americano, Mr Blunt, un letterato inglese, Mr C., mentre è la spagnola Doña Rita, affascinante cospiratrice carlista, il trait d'union di quelle discussioni: incarna l'amore, la giusta causa, l'avventura.

Come che sia, un telegramma, datato febbraio 1878, raggiunge a Cracovia Tadeusz Bobrowski, suo zio e tutore: «Konrad ferito. Mandate denaro. Venite». Il ragazzo ha tentato di ammazzarsi, scriverà questi a un amico: in sei mesi di vita dissoluta e traffici di contrabbando andati male aveva dilapidato la rendita di un anno e mezzo, si era (...)

(...) ulteriormente indebitato con la speranza di rifarsi al casinò di Montecarlo, aveva perso anche lì, poi, disperato, aveva scritto un biglietto d'addio e si era sparato un colpo di rivoltella al petto. Fortunatamente, la pallottola non aveva toccato alcun organo vitale. Lo zio Tadeusz sistema le cose: salda i debiti, mette a tacere i pettegolezzi, fa circolare la voce che non si tratti di suicidio per cause venali, ma di una ferita in duello per questioni di cuore. Ma come è davvero andata? Negli anni a venire, sarà lo stesso Conrad a raccontare che proprio di un duello erano i segni delle sue cicatrici al petto e al fianco, dove la pallottola era fuoriuscita. Quanto alle cause, un racconto e un romanzo, Il Tremolino e La freccia d'oro , le faranno conoscere: un contrabbando d'armi via mare per riportare in Spagna la monarchia, il tradimento che provoca l'affondamento volontario del veliero su cui erano stivate, l'onta dei successivi sospetti, rancori, maldicenze da lavare con il sangue.

Vero, verosimile o falso? I biografi escludono che lo scrittore abbia partecipato alla seconda guerra carlista, dal 1873 al 1876: quando scoppiò era ancora in Polonia, mentre era in corso risultava imbarcato. Quanto a Dominic Cervoni, l'ammirato marinaio corso citato all'inizio, anche lui fu in mare sino al 1877. Sono però precisazioni che non precisano, nel senso che le guerre possono concludersi con una sconfitta, ma non per questo si debbono considerare terminate: restano gli irriducibili, i romantici, i cinici avventurieri, eccetera, con i relativi focolai di resistenza, e quindi un anno dopo che la Storia ha messo il suo sigillo ci può stare che la cronaca non se ne sia accorta. Più sensata è l'obiezione che nega il duello a favore del tentato suicidio, avvalendosi della testimonianza scritta dello zio. Qui però bisogna interrogarsi sulle psicologie dei diretti interessati. Tadeusz è il fratello maggiore della madre di Konrad e, a differenza del padre di quest'ultimo, non è né un patriota polacco prima, né un prigioniero politico e un esule dopo. È un rubicondo benestante che si è ritrovato questo orfano sulle spalle, gli vuole bene, cerca di proteggerlo, si augura che non segua le orme rivoluzionarie del cognato che tanti guai causarono all'amata sorella, costretta al confino nella gelida Vologda e uccisa dalla tubercolosi. Tutto il mondo che gira intorno all'onore, le cause nobili, le cospirazioni, gli intrighi, gli è insomma estraneo. Capisce che ci si possa ammazzare per un debito, gli è incomprensibile, se non come semplice scusa, che si possa rischiare la vita per una causa, e questo il giovane Konrad lo sa benissimo, sa insomma che un tentato suicidio per dissesto economico lo sconvolgerà di meno del giocarsi la vita per un ideale politico.

In Il baule di Conrad (Nutrimenti, pagg. 154, euro 15), Dario Pontuale riporta alla luce con bravura questo aspetto poco noto della biografia conradiana, ma si farebbe torto al libro e al suo autore se ci fermassimo qui, perché la sua è una esplorazione delle navi, dei viaggi, dei compagni e della visione della vita che fanno di Conrad un romanziere straordinario e un tipo d'uomo esemplare. Avvalendosi di un espediente narrativo, lo svuotamento, in forma di rendiconto del suo contenuto, della cassa di legno dello scrittore, in gergo cassetta, dove venivano riposti gli effetti personali di ogni ufficiale di marina, Pontuale risale dagli oggetti alla scrittura, dalla quotidianità all'arte e lo fa con felicità di stile e acutezza psicologica. Giustamente egli sottolinea come sia «le tecniche narrative adottate nelle quarantatré opere dello scrittore polacco», sia soprattutto «la disamina svolta nel cuore dell'uomo, nella camera oscura dell'anima», mostrino quanto «il genere avventuroso sia, in alcuni casi più che in altri, un aspetto esteriore, quasi un elemento meramente pittoresco». È quanto lo stesso Conrad si era premurato di sottolineare allorché aveva sostenuto che «il romanzo è storia, storia interiore, o non è niente. E più della storia è vicino alla realtà. Uno storico può essere anche artista e il romanziere è uno storico, custode e interprete dell'esperienza interiore». In questa ottica, vocaboli come onore, coraggio, disciplina, sacrificio rispondono, spiega Pontuale, «a una precisa semantica, a un'integerrima accezione». È l'idea stessa di «Fedeltà» quella su cui poggia tutta la sua tematica, «un atto di cieca speranza, un degno tributo verso chi resiste con forza ai contraccolpi poiché non conta il successo, ma l'opposizione, e la sconfitta abita soltanto nel cuore degli arresi». Nel licenziare un racconto pochi mesi prima di morire, Conrad spiegherà quel suo ultimo sforzo creativo: «Mi venne in mente che il mio tempo si andava esaurendo, e volli far ordine in coperta prima di scendere in basso».

L'altro elemento cardine della poetica conradiana è il tema dell'onore, e non è un caso se ben tredici dei suoi personaggi romanzeschi ricorrano al suicidio, per non parlare del protagonista di Lord Jim e del Peyrol di Il pirata , le cui morti al suicidio corrispondono. Proprio in Lord Jim c'è una frase che ne spiega perfettamente il senso, quel «era uno di noi» con cui Conrad delinea un particolare tipo umano, perso e preso dietro all'«acuta coscienza dell'onore», l'onore smarrito, l'onore da ritrovare, l'onore da difendere: «Se ne va per celebrare spietate nozze con una vaga idealità di condotta. È soddisfatto adesso? Dovremmo saperlo. È uno di noi». Ci sono tanti modi per seppellirsi agli occhi del mondo quando quel mondo ti fa orrore perché ti ricorda una debolezza, potrebbe rinfacciarti una mancanza...

Per espiare l'aver ceduto alla paura, quel malinconico eroe conradiano finiva in Malesia, Conrad affidò al mare il distacco con una madre patria che gli era stata matrigna, e si amputò del suo essere polacco per non dover convivere con la sconfitta di un padre il quale, preso dallo sconforto, aveva bruciato tutti i suoi manoscritti in un camino, gli sforzi di una vita trasformati in cenere. Con una bella immagine Pontuale ripesca dal baule conradiano la sua antica bussola «custodita in una leggera borsa di pelle scamosciata, annodata con lacci consunti. La “linea di fede”, nome quasi divinatorio, indica il piano longitudinale da rispettare, nitide lettere in stampatello siglano i punti cardinali, otto punte della rosa dei venti sanciscono la provenienza delle correnti». Il suo nord sarà la stoica risolutezza di chi si rifiuta di scivolare nel gorgo della vita e resta sempre e comunque in piedi, alla barra del timone, in mezzo al tifone.

Stenio Solinas

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