«Ubu buur», farsa africana di Martinelli «Il Continente nero è come la Romagna»

Prima è venuta l'Africa, scoperta a metà degli anni Ottanta grazie ai vucumprà delle spiagge romagnole. Poi, dieci anni dopo, è stata la volta di «Ubu Re», un testo-cardine del teatro contemporaneo, in cui Alfred Jarry mette a nudo i meccanismi del potere e la loro intrinseca assurdità. Oggi Marco Martinelli ha assemblato i due ambiti della sua ricerca teatrale in un solo spettacolo, «Ubu buur», in scena al Franco Parenti sino a venerdì. «Buur» in senegalese, significa «re»: a pronunciare questa parola sono infatti quindici ragazzi provenienti dal villaggio del Senegal in cui il regista ravennate ha tenuto la prima dello spettacolo. Martinelli aveva già portato in scena Ubu con gli adolescenti di Ravenna, dei quartieri neri di Chicago e del rione Scampia di Napoli, ma l'Africa esercitava su di lui un richiamo così forte da spingerlo ad andare in Senegal e, grazie all'aiuto dell'ONU, mettere in scena il testo di Jarry con le persone del luogo. In quest'ultima versione dello spettacolo Ubu diventa quindi un sanguinario dittatorello africano, circondato da ragazzi col kalashnikov, dalla sua femme occidentale e dal suono persistente dei tamburi. Abbiamo chiesto a Martinelli perché l'Africa ritorna così insistentemente nei suoi spettacoli. Risposta: «Credo che abbia molto a che fare con la Romagna, il territorio in cui abito. A volte mi sembra anzi che la Romagna non sia che un pezzo d'Africa incastrato tra la nebbia. E poi perché l'Africa, da un ventennio a questa parte, cioè da quando sono cominciate le prime migrazioni di massa, ci riguarda profondamente. Quando la mia compagnia ha iniziato a coinvolgere i vucumprà negli spettacoli, a metà degli anni Ottanta, l'idea era quella di costruire una forma di meticciato teatrale che andasse incontro alla trasformazione, a quella mescolanza di popoli che, in Europa, si è poi compiuta velocemente».
Eppure, nei suoi spettacoli, la lingua in cui recitano gli attori è soprattutto il dialetto romagnolo...
«Non si può andare incontro al cambiamento accantonando le proprie radici: le mie di regista ravennate, così come quelle dei ragazzi di Scampia o quelle dei ragazzi senegalesi, che in scena parlano nella loro lingua»
La sua versione di "Ubu" si richiama ai primi testi di Jarry, scritti quando il drammaturgo era ancora un adolescente. Qual è la sua lettura di questo classico del teatro novecentesco?
«“Ubu” è innanzitutto una farsa scolastica, la creazione di alcuni collegiali che volevano irridere la tracotanza di un loro professore. Nella mia versione sottolineo come lo sguardo dei ragazzi sul mondo degli adulti, in più di un secolo, non sia molto cambiato.

Gli adolescenti di oggi, proprio come i ragazzi bretoni di fine Ottocento, tendono a assumere in sé il mondo degli adulti e insieme a contrastarlo. È in questo processo che si inserisce il meccanismo del potere, che Jarry ha saputo mettere a nudo e stigmatizzare»
«Ubu buur»
Ideazione e regia di Marco Martinelli
Al Teatro Franco Parenti fino a venerdì

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