Cinzia Romani
da Roma
Lo smarrimento a noi contemporaneo vuole monumentali certezze e Sophia Loren, lunica nostra diva formato esportazione, se ne sta ferma, con le sue fattezze da statua di Pozzuoli, lungo il viale delle glorie. Ma non si tratta di andare al Pincio, quando si parla di lei, classe 1934 senza insulti del tempo. Non stupisce, quindi, che adesso, lei viva e senza cogenze di anniversari, sinauguri al Vittoriano la mostra «Scicolone. Lazzaro. Loren» (dal 7 aprile). Già nel titolo, che cita i tre nomi dellattrice e le fasi relative a una carriera articolata, cè la dichiarazione dintenti. Quella, cioè, di ripercorrere litinerario artistico della famosa «pizzaiola», che veste Armani, sponsor dellallestimento. Dopo Roma, dove la Loren sarà allinaugurazione, la mostra andrà a New York e a Tokyo, «piazze» nelle quali la diva è famosa e amata quanto la pasta, la pizza, la moda e tutto quanto rimandi al made in Italy.
Soltanto lamericano Andy Warhol, maestro pop scaltro nellautopromozione, era riuscito, negli Anni Settanta, a celebrarsi in vita con una mostra allinsegna del suo ego creativo. Ma che cosa ha in meno di lui, Donna Sophia, lei pure al centro di una factory niente male? E allora, avanti col feticismo riverente di stanza al Vittoriano.
Che cosa sfilerà davanti agli occhi di chi vedrà la mostra sulla Loren, ideata dal giornalista Vincenzo Mollica? Tutto ciò che ruota intorno al pianeta Sophia. Se nella prima fase, trascorsa a Pozzuoli, dove viveva con madre e sorella, lattrice faceva Scicolone, macinando provini e delusioni, nella seconda, meno accidentata, il cognome fa Lazzaro e cominciano fotoromanzi e comparsate. Siamo alle soglie dei Cinquanta, allincontro della guagliona con il produttore Carlo Ponti, al quale lattrice si legherà sentimentalmente. Quella che, ormai, è la Loren, cambia il corso della sua vita e della sua carriera, interpretando film sempre più importanti fino a Loro di Napoli (ancora 54) di Vittorio De Sica, che le diede la fama mondiale, nella parte della popolana (la «pizzaiola», appunto). Ma concentriamoci sugli oggetti, perché qui è il trovarobato di tono a farla da padrone, e nominiamo le cose e la loro quantità, legati nella restituzione di un mondo scomparso. Otto gli album della carriera divistica, a disposizione di chi li sfoglierà. Sette le chiavi delle città, consegnate alla star, in segno di omaggio. Cento i libri su di lei. Trecentocinquanta le copertine, che giornali e riviste dedicarono alla Ciociara. E, a tal proposito, come non menzionare la veste stracciata, da sfollata di guerra, che Sophia sfoggiava nel celebre film di de Sica, La Ciociara, per il quale allattrice venne assegnato il premio Oscar nel 1960? Quaranta i costumi di scena indossati in Ieri, oggi e domani (1963), pure di De Sica, oppure ne La pupa del gangster, produzione internazionale del 1975 (regia di G. Capitani), citando alcune delle pellicole, da cui provengono i vestiti in mostra. Quanto ai ventidue cappellini di Jean Barthet, genio del copricapo tra i Sessanta e i Settanta, sarà divertente studiare fogge inusuali. Per la gioia dei feticisti, non mancherà la vestaglia con la quale Sophia si aggirava per casa, alle sei del mattino, quando dagli Usa le arrivò notizia dellOscar. A soddisfare i cinèfili, ecco ottanta copioni di film da lei compulsati e annotati e le cartoline di Sophia per i fans: cinquanta lettere di personaggi di chiara fama (da Bill Clinton a Charlie Chaplin) e, in due salette, venti minuti di spezzoni di film.
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