La vecchia tentazione dell’ANTIPOLITICA

L’ostilità di Croce, Prezzolini, Volpe, Gentile a Giolitti e Turati. E il progetto fallito di Salvemini alle elezioni del 1919

La vecchia tentazione dell’ANTIPOLITICA

In tempi di risorgente antipolitica, vale la pena di ricordare che questa tendenza conobbe una nobile tradizione, in Italia, nel primo decennio del Novecento, annoverando tra le sue file i più grandi intellettuali del momento, quasi senza eccezioni.
Antipolitici furono Benedetto Croce, Giuseppe Prezzolini, Gioacchino Volpe, Giovanni Gentile, egualmente ostili al blocco di potere di Giolitti e del socialista Turati, che aveva permeato con la sua influenza occulta e palese ogni settore della società, creando feudi e corporazioni privi di ogni riferimento alla pubblica utilità. Tale avversione alla «politica politicante» escludeva in linea di principio la volontà di trasformarsi in spinta antisistema, ma puntava a una riforma del sistema rappresentativo e delle istituzioni liberali e democratiche, in preda a un avanzato processo degenerativo, provocato dall’oligarchismo imperante sotto la maschera della volontà popolare, dal condizionamento reciproco tra politica e amministrazione, dal male oscuro del trasformismo che annichiliva l’identità delle diverse forze politiche e annullava la fisiologica separazione di maggioranza e opposizione, facendo venir meno la possibilità di un’effettiva alternanza di potere.
Antipolitico al massimo grado fu anche Gaetano Salvemini, come ci ricorda la bella monografia che Gaetano Quagliariello ha recentemente dedicato a questo personaggio (recensita da Davide Gianluca Bianchi su questo giornale), per il quale la necessità di «fare politica senza partito» costituiva la premessa indispensabile per una rigenerazione della vita pubblica italiana. Nel 1911, Salvemini affermava di ritenere che l’«interesse permanente della nostra nazione» fosse soprattutto «contribuire alla scompaginazione dei vecchi gruppi politici», per promuovere invece «la formazione di nuovi aggruppamenti non intorno a simboli di fede astratta, ma sulle soluzioni di determinati problemi concreti». Una posizione, questa, simile a quella di Croce che, di lì a poco, avrebbe parlato del partito politico come di un «pregiudizio» concettuale, tanto da concludere che «l’azione politica richiede sempre un tirarsi fuori dai partiti per affissare, sopra di essi, unicamente la salute della patria».
Sul tema del partito politico, della sua possibile o impossibile sopravvivenza o della sua radicale trasformazione, le tesi di Croce e Salvemini, come ha sostenuto Quagliariello, non erano però identiche, ma anzi si differenziavano su di un aspetto fondamentale. Per il filosofo napoletano i movimenti politici, alternativi ai partiti, dovevano restare subordinati alle istituzioni dello Stato, le sole accreditate a rappresentare la sostanziale unità del corpo sociale. Per lo storico pugliese, al contrario, le nuove organizzazioni di rappresentanza della società civile dovevano arrivare a investire e a modificare profondamente la vita politica a tutti i livelli, compreso quello istituzionale, determinando una diversa frontiera del confronto politico nella quale far agire nuovi attori e nuovi soggetti collettivi.
Era un progetto che si sarebbe rivelato allo stesso tempo rischioso ed eccessivamente ambizioso, nel momento in cui Salvemini si avventurava a trasportare la forza dirompente dell’antipolitica dal suo naturale terreno di coltura (circoli intellettuali, riviste d’élite, gruppi accademici) alle masse. Proprio su questo punto, il tentativo di Salvemini falliva clamorosamente quando, nelle elezioni politiche del 1919, l’alleanza tra Lega degli unitari e movimento dei combattenti, da lui promossa, registrava un clamoroso insuccesso.
Quel verdetto delle urne seppelliva per sempre le pretese del «partito degli intellettuali», ma ridimensionava fortemente anche la compagine liberale nelle sue componenti giolittiane e antigiolittiane, umiliata dall’irrompere impetuoso dei nuovi partiti di massa cattolico e socialista, che la sbalzavano dalla posizione di forza maggioritaria. Si trattava di una rivoluzione politica che Giovanni Amendola avrebbe sintetizzato parlando dell’ascesa irresistibile di formazioni «potentemente organizzate che rappresentano, nel campo parlamentare, i metodi strategici della Grande Guerra». In quella nuova congiuntura nasceva il «partito-milizia» e scompariva ogni margine di sopravvivenza «per gli individui e le pattuglie», incapaci di guadagnare il controllo delle moltitudini e «disporre di grandi forze».
Sulle ceneri del progetto salveminiano, di lì a pochissimi anni, avrebbe però preso consistenza e vigore, come effetto eguale e contrario, quello di Mussolini, anche lui fautore di un movimento di antipolitica, in grado di riunire «gli eretici di tutte le chiese e di tutti i partiti». Per paradosso, ma forse non soltanto per quello, Salvemini avrebbe visto nel fascismo, ancora tra 1922 e 1924, il calamitoso rimedio che avrebbe potuto spazzare via il vecchio notabilato politico, tanto da sostenere che «se Mussolini venisse a morire, e avessimo un ministero Turati, ritorneremo pari pari all’antico. Motivo per cui bisogna augurarsi che Mussolini goda di una salute di ferro, fino a quando non si faccia avanti una nuova generazione liberatasi dalle superstizioni antiche».


Dopo il consolidarsi della dittatura, Salvemini avrebbe rapidamente e drasticamente cambiato questo giudizio, divenendo uno dei più fermi oppositori del regime e stigmatizzando l’errore di molti intellettuali che erano stati travolti dai contraccolpi della «reazione legittima contro l’azione insincera, falsaria, camorristica, prevaricatrice dei “partiti democratici”», nella quale la rivolta dei «democratici sinceri e coerenti si è confusa con la reazione antidemocratica delle oligarchie e delle plutocrazie».

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