C è una pianta a Faenza che vive sana e rigogliosa. Giancarlo Minardi la portò in Italia dal Brasile un giorno del 1985. Doveva essere la prova che tutto era vero, che lesordio in formula uno non era stato un sogno, che la piccola scuderia italiana aveva davvero corso in mezzo ai grandi dei motori. Una vita è passata e i giovani uomini di allora sono diventati i vecchi meccanici di oggi, gente che per oltre ventanni ha lottato ogni santo giorno dentro, in pista, fra i colossi delle corse, e fuori, nella vita, fra i patemi figli dei debiti e dello stipendio che magari non arriva. «Per questo guardavamo ogni giorno quella pianta, perché fino a che ci sarà lei, pensavamo, ci saremo anche noi» raccontano fieri i ragazzi della Minardi.
Sì, è vero, si chiama Toro Rosso, la dirige lex ferrarista Gerhard Berger socio fifty fifty con il miliardario austriaco Dieter Mateschitz, però non se ne abbiano i due potenti, per noi resta e resterà sempre la cara vecchia Minardi. La Minardi che ha sbancato Monza, il Gran premio dItalia; la Minardi del piccolo Schumi che di nome fa Vettel e litaliano lo parla per davvero; la Minardi che se la spii durante le comunicazioni radio tra pilota e box scopri che la lingua ufficiale è solo la nostra; la Minardi per la quale suona lInno di Mameli e fa così strano in quel di Monza che a urlare e impazzire di gioia siano gli italiani di Faenza e non la babele di talenti di casa Ferrari. Già, la Rossa.
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