Cultura e Spettacoli

Vi racconto mio nonno Totò

Diana de Curtis: "Era severo, melanconico, spendaccione. Ma faceva anche beneficenza. E piaceva molto alle donne"

Vi racconto mio nonno Totò

Antonio de Curtis, in arte Totò, nacque a Napoli, rione Sanità, il 15 aprile 1898, e morì a Roma il 15 aprile 1967. Domenica prossima quindi sarà il quarantesimo anniversario della sua scomparsa. Per l'occasione "il Giornale" ha intervistato la nipote del grande attore, Diana, figlia di sua figlia Liliana.

Cara signora Diana de Curtis, lei se lo ricorda quel sabato 15 aprile del ’67?
«Poco, ero piccola. Il nonno Totò era morto la notte. In casa, a Roma, c’era un clima irreale. Angosciante».
Il lunedì 17 a Napoli quanta gente c’era ai funerali?
«Prima c’era stato il funerale a Roma nella chiesa per così dire di casa. Poi ci fu il trasferimento a Napoli, una processione infinita. In città c’erano centinaia di migliaia di persone a rendergli omaggio. Fu la prima volta che una bara veniva applaudita».
Perché il popolo amava tanto suo nonno?
«Lo ritenevano un parente, uno di famiglia. Nelle case italiane ancora oggi si trovano foto di Totò appese alle pareti e non soltanto a Napoli. Uno dei più fedeli fan club è a Pordenone».
Al contrario, la critica l’ha sempre bastonato...
«L’intellettuale era contro ciò che è nazionalpopolare. Far ridere non era considerata un’arte. Anche se poi, di nascosto, nel buio, magari i critici, che spesso erano i vice, si sbellicavano. Pubblicamente no, era obbligatorio stroncarlo».
Che cosa ha poi spinto gli stessi critici a rivalutarlo?
«Il pubblico. È stato riabilitato a furor di popolo».
A quarant’anni dalla morte, Totò è ancora popolarissimo. Basta pensare che i suoi film sono tra i pochissimi in bianco e nero trasmessi in tv in prima serata...
«La sua è una comicità pura, universale, senza tempo, non legata alla satira del momento».
Totò è anche l’unico attore italiano il cui nome figura nel titolo del film...
«Certo, ma lui è come Topolino, un cartone animato».
Come è nato il nomignolo Totò?
«Nel modo più semplice. A Napoli Antonio si dice Totonno oppure Totò. Quindi non è stato fatto su misura».
Su Totò circolano molte leggende. È vero che di notte girava in macchina con l’autista e lasciava una busta con i soldi sotto il portone dei più poveri?
«Vero. Cercava, scegliendo a caso, le case più fatiscenti, quelle dei bassi, quasi sempre nel suo quartiere, la Sanità. Lui la povertà l’aveva conosciuta bene».
Pur prendendo in giro i potenti, però esibiva con una certa ostentazione i suoi titoli nobiliari...
«Sì, ne era fiero. Per tanti anni era stato figlio di enne enne. Da militare ne aveva sofferto molto».
Furono lunghe e costose le ricerche araldiche?
«Altroché. E quante cause ha fatto a salvaguardia dei suoi titoli nobiliari: tutte vinte, nessuna esclusa».
Lei lo sa a memoria quel cognome interminabile?
«Sì, anche se effettivamente è un po’ lungo...»
Il suicidio di Liliana Castagnola fu proprio per amore di Totò?
«Certo. Era una donna bellissima. Che aveva provocato suicidi e duelli. Senza contare i duelli. Lei si era innamorata di Totò, per lui era una storia come tante. Quando le disse: “Vado a fare compagnia con Cabiria”, lei si uccise. Da allora, per volere del nonno, riposa nella nostra tomba di famiglia a Napoli».
Sua mamma Liliana fu chiamata così in memoria di quella soubrette degli anni Trenta?
«Sì, il nonno volle ricordare quella poveretta».
Com’era fuori dal set, triste come i veri comici?
«Direi melanconico... Era molto serio, senza però essere serioso. La famiglia per lui era la cosa più importante. La teneva al di fuori di tutto. Era rigido, soprattutto nell’educazione. Mio fratello Antonello ed io eravamo in soggezione, anche per via delle governanti tedesche, che sceglieva il nonno...».
Del tipo «la serva serve, soprattutto se è bona, serve»?
«No, contava soltanto la serietà».
I produttori lo sfruttavano. Nel ’58, per esempio, girò otto film.
«Indubbiamente, anche se era lui che voleva lavorare. Doveva lavorare, anzi. Era un grande spendaccione, gli piaceva vivere bene e faceva tanta beneficenza».
Eppure nel ’58 era quasi cieco da due anni...
«Ne soffriva, ma sul set non se ne curava. Come i balbuzienti ritrovano la voce, lui si muoveva come se ci vedesse perfettamente. A Palermo aveva appena fatto la sua ultima recita teatrale in A prescindere quando gli capitò quel guaio all’occhio destro. Il sinistro era già fuori uso da vent’anni. Riusciva solo a distinguere le sagome delle persone».
Al botteghino faceva sempre sfracelli. I suoi cachet erano adeguati a quegli incassi strabilianti?
«Direi di no. Ma ne girava tanti, che di soldi gliene entravano in tasca in continuazione».
Si è mai lamentato della scarsa qualità di certi film?
«No. Li ha amati tutti. Lavorare per lui era un piacere, purché gli orari fossero alla francese: mai prima di mezzogiorno. Aveva la pressione bassa, non dormiva fino a tardi, ma ci metteva un po’ a carburare. Quando era stanco fischiava: era il segnale di stop. In sei ore sul set girava quello che gli altri giravano in sei giorni».
Un film che Totò aveva nel cuore?
«Guardie e ladri».
E il suo preferito, signora?
«Miseria e nobiltà. Il cappotto di Napoleone è un mito».
Li rivede i film di suo nonno quando li fanno in tv?
«Sì, noi della famiglia siamo i primi fan. Quando uno è giù di corda, venti minuti di Totò mettono di buon umore».
Senta, come mai suo nonno piaceva tanto alle donne. Non era Rodolfo Valentino...
«Spogliato dagli abiti di Totò, in cui siamo abituati a vederlo, aveva proprio un bel fisico, con le spalle larghe, gli piaceva remare. Era un uomo affascinante, con le donne ci sapeva fare. Molto galante, sapeva ascoltare, le faceva sentire importanti».
Qualità e difetti...
«Era gelosissimo. Anche dei figli. L’attenzione a tutti i piccoli problemi rischiava a volte di diventare un’ossessione. Però ci faceva sentire protetti. Le qualità più grandi, bontà e generosità».
I grandi amori della sua vita?
«Prima di tutte, sua moglie, mia nonna Diana, che si chiama come me, in famiglia non abbiamo molta fantasia. Lei aveva sedici anni e studiava in collegio a Firenze. Una sera andò a teatro all’aperto, lo spettacolo era Follie estive, in cui recitava Totò. Scoccò la scintilla, reciproca, la nonna scappò e lo raggiunse a Roma. Poi Franca Faldini, l’altra donna della sua vita».
È vero che improvvisava quasi sempre? Lo diceva lui stesso per un vero comico il copione non deve contare...
«Sì, improvvisava molto. In teatro coglieva al volo gli umori del pubblico. Se la novità funzionava, andava avanti, altrimenti cambiava registro, senza che nessuno se ne accorgesse».
E i registi subivano o capitava che qualcuno s’impuntasse?
«Lo lasciavano fare, magari se ne andavano a prendere un caffè, lasciandolo solo sul set».
Con i partner andava d’accordo?
«In scena sempre».
Malafemmena fu scritta per la Pampanini o per chi?
«Ma no, fu scritta per mia nonna Diana. Tanto è vero che quando lei gli rimproverava scherzosamente di averle regalato una casa, lui rispondeva: “L’hai guadagnata tu con i diritti d’autore di Malafemmena”».
Quarant’anni dopo, chi era Totò?
«Un angelo, un nonno, un padre, un amico, un fratello. Noi oggi parliamo tutti con le sue battute. Fa parte della nostra quotidianità».
Lo ricorderete pubblicamente?
«Sì, in ottobre alla festa del Cinema di Roma.

Con Un Principe chiamato Totò, una docufiction che sto girando con Barbara Calabresi, prodotta da Sergio Valzania».

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