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Viaggio nella città dell’assedio infinito Sotto le bombe ormai più morti che vivi

MisurataLa bandiera verde del rais sventola tra i ruderi del palazzo delle assicurazioni. Un deserto di rovine. Una distesa di case sventrate, crateri anneriti, carcasse bruciate. Un silenzio di morte. Battuto dal vento. Interrotto dalla preghiera del muezzin lontano, infranto dai colpi secchi dei cecchini. Hussein avrà 22 anni. La sua mano allungata dietro le spalle è la mia guida. Ora si alza. L’altra punta il kalashnikov verso quell’intrico di cavi elettrici, lampioni carbonizzati, mura abbattute, calcinacci precipitati, vetri infranti. Ora siamo fermi. Ora la mano va giù ed io ed Hussein siamo a terra. Un secondo ed ecco il colpo. Unico, secco, inconfondibile. Un sibilo trenta centimetri sopra le nostre teste. Uno sbuffo di polvere su un muro crivellato. Le spalle di Hussein spingono il palazzo, la sua guancia sembra penetrarvi. Ed io con lui. «É a cento metri, forse meno, non parlare, non muoverti». La sua voce è un fiato leggero. Il mio cuore dentro il giubbotto antiproiettile una pompa impazzita. L’arte della guerra e della sopravvivenza si gioca in questi venti centimetri di muro e marciapiede nel cuore della vecchia di Misurata. Un movimento è la fine. L’immobile silenzio la salvezza. Il cecchino ci riprova. Un altro colpo, un altro sibilo, un altro sbuffo nel muro. Ora tocca agli amici di Hussein. Una gragnola di colpi spazza i ruderi del palazzo, insegue quel mirino appostato sopra la nostra testa. Hussein sorride. «La senti? É la nostra musica, la musica di Misurata. Con questa li tiriamo fuori, li staniamo, li ammazziamo».
Dal punto di vista del giornalista appiattito sul terreno, sovrastato da quelle sventagliate di piombo nel mezzo di una sconosciuta distesa di rovine non è un gran spasso. Ma questa è la guerra di Misurata. Una guerra nel cuore della città. Una guerra da cecchini. Una guerra dove vincere significa strappare al nemico mezzo isolato di macerie. E a che prezzo. Qui attorno non vedi un’anima. Qui attorno non sopravvive più nessuno. Hussein fino a due mesi fa prendeva i libri, attraversava questa strada calcinata, salutava gli amici, correva all’università. Ora per molti di loro recita soltanto una preghiera. «Quattro sono morti, di quelli feriti ho perso il conto. Quelli gravi sono almeno quindici. La mia famiglia è fuori dalla città non li vedo sa due mesi. Qui abbiamo tutti perso qualcuno». Qui è un concetto strano, confuso. Un filo di morte e guerra ricamato in una distesa di distruzione. Si parte da quel palazzo delle assicurazioni ultimo nido dei lealisti nel cuore di Misurata vecchia e si risale lungo Tripoli street, la via dei franchi tiratori. La via della morte. Lei ti viene incontro da una cantina. Ha l’aspetto informe di una coperta arrotolata, imbrattata, insanguinata. La portano in tre. Te la posano davanti ai piedi. Una mano frettolosa ne sposta i lembi, ne controlla il contenuto. Ne spunta un volto terreo, una mascella irrigidita, una nuca scavata, uno scalpo sollevato, una coppia di occhi sbarrati. «É morto ieri sera, un colpo di mortaio gli è esploso accanto mentre tentava di andare a fare la spesa, ma non potevamo venirlo a prendere, i bombardamenti erano troppo intensi». L’infermiere te lo racconta con il tono banale di chi ne ha visti troppi. «Ci veniamo ogni giorno, li portiamo via alla mattina, li mettiamo sull’ambulanza e li portiamo all’ospedale». A dar retta alle statistiche sono ormai 400 cadaveri per 50 giorni di guerra. I feriti non li conta più nessuno. «All’ospedale dicono 1500, ma ne abbiamo perso il conto» la chiude lì Fuad, mentre infila il cadavere quotidiano nell’ambulanza.
Ora finita la città vecchia, superato il rudere del palazzo della polizia e quello del tribunale siamo nel cuore della guerra vera. Qui i colpi di mortaio si confondono con quelli di katyusha. E i combattenti con i civili. Abu Baker 24 anni, è il capo manipolo del quartiere di Al Bira. La sua base è lo scheletro di un palazzo diroccato, la sua armata un pick up con un cannone senza rinculo e una decina di armati. «Fino a due mesi fa la guerra l’avevo vista solo al cinema ora ci passo le giornate, non so come ho imparato, non so come li stiamo fermando.

Ieri li abbiamo respinti di un chilometro, ora teniamo sotto tiro una cinquantina di soldati di Gheddafi che cercano di entrare nella nostra zona. Non so come finirà, ma so che non abbiamo scelta. Oltre a questa vita per noi di Misurata è rimasta solo la morte».

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