Premessa: questo libro è particolarmente interessante e consigliabile per tutti gli ubriaconi del mondo, è dedicato ai santi e ai non santi bevitori e a tutte le tribù degli alcolisti cronici planetari. «Bere è terribile, scrivere del bere è terribile; bere, scrivere e sconfiggere la bestia della retorica alcolica è tre volte terribile». Questa è una delle tante considerazioni etiliche di Jerzy Pilch, uno dei maggiori scrittori polacchi viventi che approda in Italia con il suo magnifico trattatello alcolico Sotto lala dellangelo forte (Fazi Editore, pagg. 212, euro 13,50. Traduzione di Lorenzo Pompeo e Grzegorz Kowalski). Debuttante nel 1969 come poeta, Pilch (classe 1952) ha raggiunto in seguito una grande popolarità con gli interventi sul settimanale cattolico Tygodnik Powszechny. Nel 2001 il suo Sotto lala dellangelo forte ha ottenuto il premio Nike, il più prestigioso riconoscimento letterario polacco.
Aveva ragione Czeslaw Milosz a vedere in lui «la speranza» della letteratura polacca. Attraverso una serie di metafore alcoliche, eloqui ego/narcisistici, confessioni pubbliche e visioni mistiche, lo scrittore affronta in chiave romanzesca letilica questione e simmerge in una delle tante realtà urbane popolate da individui dediti allo sbevazzamento come filosofia di vita. Jurus, il protagonista, è (ovviamente) uno scrittore con (ovviamente) un paio di matrimoni falliti alle spalle, uneccessiva propensione verso lordine (sintomo di un cattivo stato nervoso) e (ovviamente) ossessionato dalla scrittura, dalla letteratura, dalle donne e dal vizio del bere. Dotato di una sublime voracità verbale e unistrionica dialettica, quando non si fodera il cervello di letture superficiali, in piena sbornia da vodka Absolut ghiacciata, è capace di leggersi con liquoroso fervore Moby Dick o La Montagna incantata percependone ogni impalpabile sfumatura. Per lui la vera questione da porsi è la seguente: perché la maggior parte dellumanità non beve? E su questo più che legittimo quesito, si snoda la vicenda paradigmatica di unumanità debosciata che gronda (non proprio sempre) buoni sentimenti e (più spesso) ettolitri di Pilsner, Gambrinus o Budweiser.
Jurus entra ed esce dal reparto alcolisti diretto dal severissimo primario Granada, luogo ideale per intellettuali allo sbando e casa-famiglia per estrose anime in pena. Qui, nel regno tutto genio e sregolatezza dei cultori di Luppolo e Bacco, la vita scorre spericolata in direzione del nulla e della futilità cosmica, tra incubi notturni, dialoghi tragicomici, scappatelle alla «Locanda dellAngelo Forte» e colte citazioni consolatorie di eminenti sbevazzoni (da Tynjanov a Cioran, Dostoewskij, Bukowski, Bellow). Vite sconsiderate per farla breve, come quella che il buon Jurus conduce finché un giorno irrompe in casa sua la bella poetessa Alberta, animata da un femmineo spirito amorevole assistenzial altruistico.
La Bella pone alla Bestia la fatidica domanda che cambierà una volta per tutte la sua sgangherata esistenza: «Ma perché bevi mon chèr?». Domandina che colpisce dritto al sub-subconscio che non aspettava altro per manifestarsi in tutta la sua banale essenza e il suo bisogno di santanormalità: pace, salute, ogni bene und so weiter. Meravigliosi i ritratti dei protagonisti e ancora di più i dialoghi fra pazienti sciroccati, infermiere semi-bonarie e medici che ne hanno fin sopra i capelli di alcolisti e aspiranti suicidi che con tranquilla furia perseverano nella loro compiaciuta esistenza.
Nella prosa di Pilch sono evidenti le influenze dalla letteratura ceca (Kundera e forse ancor di più Hrabal) e spesso viene rievocata linfanzia e la piccola città di Wisla (sui monti Carpazi), dove Jerzy Pilch è nato in seno a una comunità protestante nellarcicattolica Polonia. Tutta la sua opera, da quella pubblicistica a quella più propriamente letteraria, è pervasa dal gusto per la novella ironico-filosofica.
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