«Vorrei cantare con Renato Zero»

Stenio Solinas

«Ah, Fred Vargas» dice Luca Zingaretti indicando il romanzo che fa capolino fra i giornali che ho posato sulla sua scrivania. «Come si intitola?». «Dans les bois éternelles. In Francia è appena uscito». «Non l’ho mai letto in originale, è un francese semplice, scusi la banalità della domanda, ma Parigi è l’unica città non italiana dove vorrei vivere, e allora...». «Be’ è un francese abbastanza classico, qui poi c’è addirittura uno dei poliziotti che si esprime in versi alessandrini, come un personaggio di Corneille, di Racine...». «Sarebbe interessante verificare se li ha ripresi dalle tragedie o se sono creazioni ex novo. D’altra parte la Vargas è una medievista che scrive gialli, in quell’altro suo romanzo sulla peste, Parti in fretta e non tornare, c’era tutto un susseguirsi di citazioni sul morbo ricavate da classici d’epoca...». «È l’ultimo suo tradotto?». «No, l’ultimo si chiama L’uomo a rovescio, è quello sulla licantropia».
In un Paese dove si legge poco trovare un attore che legge più di chi lo fa per mestiere è consolante e disarmante. È anche vero che Zingaretti è stato sposato con Margherita d’Amico, nipote di Suso Cecchi d’Amico e figlia di Benedetta Craveri e Masolino d’Amico, cognomi insomma che da soli raccontano un secolo di cultura italiana. «Guardi, qui lei sfonda una porta aperta, perché se cominciamo a parlare di libri non la finiamo più, non la finisco più. E però, siccome l’intervista, da quello che lei mi ha detto, dovrebbe vertere sui “sogni nel cassetto”, su quello che veramente mi piacerebbe fare, il desiderio massimo, be’, il romanzo è comunque uno di questi. Veda, essendo un lettore vorace ammiro e invidio chi ha il dono di incatenarmi alla pagina. Prenda Philiph Roth, l’autore di Pastorale americana: c’è una capacità di introspezione, di ambiti semantici, di ricostruzione di spazi e luoghi che è straordinaria. È un universo con le sue regole e le sue leggi, con una tecnica a sé stante. Più della pittura, direi, la pittura moderna se non altro: perché davanti a una tela, in un momento di esaltazione, forse alla fine riesco con una secchiata di colori a rendere il mio stato d’animo, quello che provo, mentre un romanzo è una costruzione e una decodificazione... Assomiglia di più alla musica classica, ha un suo linguaggio peculiare. Ecco, questo sarebbe uno dei miei sogni massimi. Peccato sia un sogno proibito, cioè irrealizzabile, e quindi è meglio non pensarci».
Magari c’è qualcosa di più semplice, come dire, di meno intellettuale, azzardo io. Zingaretti mi guarda un po’ perplesso e poi sorride. «È colpa della scrivania» dice. «Lei mi ha fatto sedere dal lato dove c’è questa poltrona con schienale che ti obbliga a parlare come se uno dovesse fare un proclama... No, guardi, io non sono un intellettuale, per l’amor di Dio, molto più semplicemente sono una persona inquieta, irrequieta e curiosa a cui una vita purtroppo non basta. L’altro giorno ho incontrato per caso un tizio che sta prendendo il brevetto di volo con gli ultraleggeri. Non lo mollavo più, volevo sapere tutto e adesso, a settembre, vado all’Aeroclub a iscrivermi. Intanto sto studiando per la patente nautica, oltre le sei miglia marine, la vela mi è sempre piaciuta, fin da ragazzo, e però solo adesso che ho superato i quarant’anni mi viene l’urgenza di fare quello che avrei potuto e dovuto fare a venti. Non so se mi capisce...».
Maglietta bianca, jeans, scarpe da ginnastica, leggermente sovrappeso, Zingaretti mi guarda con attenzione. La capisco benissimo mi vien voglia di dirgli, la vita è una corsa contro il tempo in cui si è sempre in ritardo... Comunque, ricapitolando, la scrittura, il volo, il mare, niente di professionale, insomma. Quello dell’attore, in fondo, è un sogno realizzato. «In una certa misura sì. Ma io vengo dal teatro, dove è l’attore il centro di ogni cosa, laddove nel cinema questo ruolo ce l’ha il regista. E quindi nel mio futuro, ecco un altro sogno, ci sarà sicuramente la regia. C’è un romanzo di Margherita d’Amico, Il secondo di bordo, che mi tenta da anni, la storia di un’infanzia drammatica, ma con elementi di speranza. A me affascina l’uscita dal tunnel, vedere il chiarore, il riscatto... Naturalmente il teatro mi tenta ancora, anche perché sempre meno gioco a pallone...».
Questa del rapporto fra la recitazione e il calcio è una antica fissazione di Zingaretti. «Lo so che tutti mi prendono per pazzo, ma le analogie sono inquietanti. Ci si allena per l’evento, la partita e la recita, c’è un luogo deputato, il teatro e lo stadio, con una sua ritualità che va dall’entrata in campo, sulla scena, con le sue tensioni, le sue paure, allo stato di trance in cui si piomba durante l’esibizione, la partita... E poi entrambi sono giochi di squadra, un passaggio ben fatto è come una battuta ben servita, c’è l’epilogo vittorioso, sfatti di sudore ma felici, oppure sfortunato, quando devi ammettere con te stesso che non eri in palla, che hai sciupato un’occasione».
C’è davvero tutto, manca soltanto la corruzione, gli dico ridendo, anche se i Mondiali rischiano di farcela dimenticare. Da infervorato Zingaretti si fa serio. «È difficile non essere disgustati da quello che si legge, si sente e si vede. E non solo nel calcio: guardi, l’Italia è un Paese che andrebbe rifondato su basi etiche. Si scambia il pudore per debolezza, la libertà con il menefreghismo... No, non siamo messi bene. E poi c’è questo disinteresse, questa mancanza di memoria, il farsi scivolare addosso le cose. Io non sono un nostalgico delle ideologie, dei blocchi, delle fedi politiche, o meglio, ne ho nostalgia ma so benissimo che erano un errore, ma quello che è venuto dopo è preoccupante: una incapacità a fare autonomamente una politica estera, il trionfo dell’arte di arrangiarsi, il cinismo e il dilettantismo come cifra politica. Le dico tutto questo da italiano, cioè da uno che ama questo Paese, che è orgoglioso di esserci nato, che quando sente l’inno di Mameli si commuove... Quello che detesto è il pressappochismo, il tengo famiglia, il porsi sempre al di là delle regole, l’incapacità a essere popolo e quindi una decadenza morale che ha superato di gran lunga i limiti fisiologici. Io non so se ogni nazione ha la classe dirigente che si merita, anche se propendo per questa interpretazione. So solo che non diamo un bello spettacolo e basta vedere certe facce per capire il perché...».
Nel futuro prossimo di Zingaretti c’è un film con la regia di Simona Izzo in cui fa un cuoco di fama, due stelle Michelin, in crisi di ispirazione perché in crisi d’amore, e un altro con Marco Tullio Giordana, dove sarà Osvaldo Valenti, il celebre attore degli anni Trenta che morirà a Salò. «Mi aspetto molto da entrambi. Il primo ha degli elementi che sono anche miei, il cibo, l’eros, la convivialità, il piacere della vita... C’è una sceneggiatura perfetta in tal senso. Il secondo corona un vecchio sogno, vede che restiamo in tema, lavorare con Giordana, un maestro in senso assoluto».
Nel futuro immediato, c’è questo Festival del Documentario, «Hai visto mai?», dal 13 al 15 luglio. «Anni fa feci la regia di un documentario sull’Uganda per una Onlus. Era un Paese che aveva avuto Idi Amin, 16 anni di guerra civile, l’epidemia di Ebola, non le dico altro... Fu un’esperienza esaltante, perché è vero che l’Africa ti cambia la vita, ma lo fu anche dal punto di vista professionale: il documentario ha delle potenzialità incredibili che ignoravo. In un’epoca di confusione mediatica come la nostra permette di raccontare meglio, con maggiori capacità di scelta, senza frenesie. Due anni dopo ho fatto Storie di cinema e di altro, ovvero l’Italia attraverso un testimone come Suso Cecchi d’Amico, un secolo, in pratica, di frequentazioni politiche, intellettuali, di vita. Il modo di parlare di Suso è affascinante, ed è tutt’uno con la sua capacità di ricevere, di intrattenere... Infine, la scorsa estate, una vacanza in Val di Merse, la meno conosciuta delle valli senesi, ha fatto germogliare questa idea di un festival-festa dedicato a un genere poco praticato eppure importantissimo. E così è nato il tutto».
L’intervista volge al termine e i desideri, le aspettative, i sogni, appunto, vengono di nuovo chiusi nel cassetto. «Forse un po’ di serenità, una minore inquietudine non stonerebbero» dice ancora Zingaretti. «Per quanto... Comunque, un sogno veramente sogno ce l’avrei... Mi piacerebbe cantare sul palco insieme con Renato Zero... Sa, io sono stato un sorcino da teatro-tenda di Piazza Mancini, parlo ormai di trent’anni fa... Ecco, sarebbe il massimo. Zero è il non plus ultra... Sì, certo, mi piace Paolo Conte, è un mito, ma Renato Zero, è un’altra cosa, fa parte della mia vita. Sì, sul palco con lui sarebbe un sogno».


Al momento di salutarci Zingaretti mi fa: «Sono stato troppo confuso e disordinato. Veda lei se riesce a farmi sembrare intelligente». Gli dico che non è un compito difficile. «Temevo lo definisse impossibile».
Stenio Solinas

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