C’è una categoria di scrittori che di solito definisco «scrittori a (s)comparsa»: nel senso che sono grandi autori che fanno un giro di giostra nel nostro mondo editoriale per poi, non si sa per quali motivi, essere destinati all’oblio. Solo per restare agli italiani si prenda Eugenio Balzan (un genio che sembra aver letto solo Vittorio Sgarbi e che in Italia sembra destinato a meritarsi soltanto una vietta nel centro di Milano, dove tra l’altro c’era da anni una storica libreria che hanno recentemente chiuso); si prenda Luciano Bianciardi, dimenticato per anni, poi osannato tra il 2008 e il 2009 per finire tumulato nemmeno in un Meridiano Mondadori (che ormai non si nega più a nessuno, nemmeno a Camilleri) ma in un Antimeridiano (la versione deluxe dei sempre pauperrimi radical chic di Isbn editore); si prenda Filippo Tuena, autore nel 2007 di un capolavoro come Ultimo parallelo (pubblicato da Rizzoli, vincitore del Premio Viareggio, ma “giustamente” fuori catalogo) o Gianfranco Calligarich che con il suo L’ultima estate in città, altro capolavoro, nei primi anni Settanta divenne un caso editoriale per essere poi dimenticato sino allo scorso anno, quando Nino Aragno Editore ne decise la ripubblicazione tra ovazioni dei critici e dei lettori. Stessa sorte, stesso destino, sembra aver toccato uno tra i più grandi scrittori, poeti e intellettuali dell’ultimo Novecento: J. Rodolfo Wilcock, argentino che a certo punto si mise a scrivere in italiano. Un funambolo del verso, un eclettico della parola, un enciclopedico che non si è perduto nella Babele di Borges: un artista, un genio, una meteora di generosa, viva e vibrante incazzatura intellettuale. Wilcock, nato a Buonos Aires nel 1919 e morto a Lubriana nel 1978, ha da sempre, dagli anni Cinquanta, frequentato il mondo giornalistico - fu critico letterario de Il Mondo di Pannunzio - e culturale italiano: tanto che post mortem, proprio nel 1979, riceverà la cittadinanza italiana.
Dopo anni di oblio editoriale una sua breve raccolta di scritti, pubblicati lo scorso anno da Adelphi con il titolo Il reato di scrivere (5 euro, un testo che non può mancare se non volete essere mancati dalla grande letteratura). È diventato un piccolo culto perché in quelle poche pagine, scritte negli anni Sessanta, Wilcock ha anticipato e sintetizzato la maggior parte del nostro presente: le terze pagine culturali, i dibattiti online, le polemiche sui premi. Wilcock ha sempre esercitato liberamente quella che amava chiamare «l’ebrezza aristocratica del dispiacere». È con vera felicità, quindi, che plaudiamo la scelta di Adelphi di ripubblicare, dopo quasi quarant’anni dalla prima edizione (1973) I due allegri indiani (pagg. 298, euro 19). Non è certo il suo miglior romanzo ma senz’altro il miglior viatico per scoprire l’altra «ebbrezza» dello scrittore. Quella più ironica, quella che ha anticipato, non solo in Italia, il filone della satira demenziale: talmente demenziale da risultare tragica. Ed è vero, come si legge in seconda di copertina, che in questo romanzo si ride a ogni pagina: perché «i due allegri indiani» del titolo non siamo altro che noi, allegri scribacchini del nulla e spensierati lettori che tentano di stare lontano da ogni forma di pensiero autonomo. Si legge questo romanzo come un continuo sketch d’avanspettacolo ma con la sensazione di non perdere tempo e soprattutto di essere inconsciamente immersi tra pagine di grande letteratura. Attraverso continue invenzioni linguistiche, comunque lontane dai più noiosi e inutili sperimentalismi, Wilcock gioca con l’italiano e con gli italiani. Non a caso nelle avvertenze al romanzo, firmato in anticipo sui tempi da un collettivo (senza copyright alla Wu Ming), la prima è che questo libro si rivolge ai «lettori del futuro». Forse questo futuro è arrivato e il presente è pronto a scoprire, al di là dei soliti quattro intellettuali, a fare di Wilcock uno dei nostri migliori scrittori.
Con più o meno difficoltà, in attesa della ripubblicazione da parte di Adelphi, potete trovare quasi tutti i romanzi dello scrittore disponibili in libreria o in biblioteca (nessuno lo ricorda, ma esistono anche quelle).
Scoprirete un artista che ha compreso e vi regala la «gioiosa e melanconica accettazione/ dell’umana effimera fantastichezza» (per citare un suo verso da Poesie) senza alcuna invidia nei confronti degli autori di successo che «come gli scimpanzè sempre pare stiano sul punto di dire qualcosa».
Per Wilcock «ci sono state epoche in cui gli artisti potevano esprimersi in fretta, qualunque cosa facessero sembrava trasfigurata da una felicità inspiegabile, come se tutti fossero stati condannati a morire giovani e quella luce che cerca di palesarsi attraverso le opere umane avesse deciso di illuminare in fretta la totalità di quei corpi mortali che dovevano trasmetterla, Keats, Mozart o Marlowe. In altre epoche quella luce diventa riluttante e l’artista la raggiunge a fatica, e ciò che è improvvisato riesce spento, la luce di cui l’epoca manca non poteva toccarlo; bisogna fabbricarla, ed è una luce artificiale».
Riabilitiamo Wilcock, facciamolo arrivare in classifica. Gli dobbiamo molto. Come rimborso minimo a uno scrittore che è riuscito per anni a non farsi includere nei listini di Borsa dei nostri ponderati recensori.
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