Su LUomo Vogue dello scorso gennaio - dove appariva vestito Armani, Dunhill, Borsalino e Burberry, quasi lo stesso fascino di Dustin Hoffmann nella Versione di Barney, fresco e soddisfatto del Man Booker Prize per Lenigma di Finkler (da mercoledì prossimo in libreria per Cargo, pagg. 434, euro 20) - Howard Jacobson raccontava un aneddoto autobiografico dal buon valore critico-letterario. A un party degli anni Ottanta, Philip Roth gli strinse la mano con gelo e disse di non averlo mai sentito nominare né tanto meno letto. Stessa sera stesso party, Jacobson conobbe Claire Bloom, allepoca moglie di Roth, che invece gli rivelò: «Ma io lho già vista... La sua foto è sulla copertina dei suoi libri che Philip tiene sul comodino!».
Che cosa aveva da invidiare Roth a Jacobson, per comportarsi così? Presto detto: Jacobson possiede la sua stessa profondità psicologica nellindagare il rapporto uomo-donna, solo è di gran lunga più divertente, senza per questo tralasciare nessun aspetto tragico dellesistenza. Può darsi che lallegro Jacobson verrà dimenticato tra qualche decennio, poiché la pesantezza di Roth è più adatta a permanere nelle storie della letteratura e nellanimo dei lettori, ma intanto Jacobson vende di più: 450mila copie di Lenigma di Finkler nella sola Inghilterra, 24 settimane in classifica, ormai lunga presenza nelle top ten Usa e Australia, da otto settimane primo bestseller britannico in India e da sei in Pakistan, con la moglie di Jacobson che sè dovuta prendere un anno sabbatico per aiutare il marito a gestire la sovraffollata agenda di presentazioni, dagli Stati Uniti alla Nuova Zelanda. A latere, ma il dettaglio potrebbe avere un significato persino letterario, è probabile che Jacobson seduca più femmine di Roth.
Lenigma di Finkler consta di 430 scorrevolissime pagine in cui la fa da padrona linvidia di Julian Treslove verso Sam Finkler, un po sul genere di quella che nutriva Richard Tull per Gwyn Barry in Linformazione di Martin Amis, con in più un terzo personaggio: Libor Sevcik, vecchio insegnante in comune tra i due. Sam Finkler ha guadagnato celebrità e soldi pubblicando dozzinali manuali self-help di filosofia pratica come Lesistenzialista ai fornelli o Piccolo manuale di stoicismo domestico e, non bastasse, «sulla scia del successo ottenuto era diventato - malgrado i piedi grossi e leloquio a doccia e, secondo Treslove, malgrado laspetto nel complesso per nulla attraente - un noto personaggio televisivo», autore di trasmissioni para-psicoterapeutiche che spiegano come Schopenhauer o Wittgenstein possano aiutare a vivere meglio. Oltretutto, Finkler è felicemente infedele (o meglio non ha complessi riguardo leros e a un certo punto dice: «Maimonide concepisce la circoncisione come uno strumento per raggiungere la moderatezza sessuale. Ma devo dire che con me non ha mai funzionato») e tiene simpaticamente banco alle tavolate. Un vero finkler, dunque, cioè un vero ebreo, dal momento che Treslove presto confonde e trasfigura lindividuale con luniversale, sviluppando una vera e propria «finklericità»: malattia culturale che prevede un misto di invidia e risentita amorosa curiosità per il mondo ebraico e, nello specifico, per Sam Finkler.
Di suo Julian Treslove è un disastro: somigliante alle persone attraenti, ha tratti regolari, veste bene, ma sopravvive facendo il sosia di celebrità. È un fragile sentimentale cui basta «vedere una donna per presagirne le conseguenze» (tutte immaginarie, che Jacobson racconta con spassosa vertigine psicologica), uno che nel passare «accanto a un salice spiovente su un ruscello, vedeva Ofelia tra le acque, gli abiti che le si allargavano attorno al corpo da sirena. Di acqua ce nera anche già troppa - cè mai stata nellarte donna più affogata di Ofelia? - ma lui era pronto a contribuire allallagamento con le sue lacrime». Poteva non rimanere sedotto (e abbandonato) dalla vitalità autoreferenziale dei figli di Abramo, donne comprese? Come Hephzibah, che qualsiasi cosa faccia «attenta alla sua pace interiore», come se non fosse già terremotata fin dalla prima pagina del romanzo.
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