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La sopravvissuta al blitz: erano in mano a jihadisti

Una donna sopravvissuta al blitz in cui sono morti Failla e Piano descrive i terrorisi: "Tunisini, il capo è Abu Nassim"

La sopravvissuta al blitz: erano in mano a jihadisti

Gli ostaggi italiani erano in mano fino all'ultimo a jihadisti tunisini dello Stato islamico. Il loro capo a Sabrata è Abu Nassim, nome di battaglia di Moez Fezzani, vecchia conoscenza dell'antiterrorismo, che ha vissuto a Milano fin dal 1997. Il responsabile della cellula dei sequestratori si chiama Abdullah Dabbashi, anche lui jihadista delle bandiere nere, dato per morto, ma forse ancora vivo.

Le clamorose rivelazioni, tutte da confermare, sono contenute in 4 video della «confessione» della tunisina Wahida Ben Mokhtar Ben Ali, mostrati in parte nella puntata di Piazza pulita di giovedì sera su La7. La donna è l'unica sopravvissuta del convoglio che il 2 marzo trasportava verso un nuovo covo Salvatore Failla e Fausto Piano. Ieri si sono celebrati i funerali dei due ostaggi italiani uccisi dalle milizie islamiste di Sabrata, che li avevano scambiati per jihadisti nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore sono stati eliminati per rapinare il riscatto servito a far liberare da soli gli altri due ostaggi italiani Filippo Calcagno e Gino Pollicardo.

I video trovati da Piazza pulita sono postati sulla pagina Facebook d'informazione 218 di Sabrata. La cittadina costiera libica dove i 4 ostaggi italiani sono sempre stati detenuti.

La testimone tunisina aveva seguito il marito, che non viene mai nominato, in Turchia, da dove era «entrato in Siria grazie ad un gruppo che combatteva contro Assad». Poi la coppia si è spostata in Libia: «Mio marito riceveva sempre delle telefonate da Abu Nassim. A me non piaceva che combattesse, ma lui voleva andare a Sabrata da Nassim». Abu Nassim è il nome di battaglia del cinquantenne Fezzani, uno dei fondatori di Ansar al Sharia in Tunisia, gruppo salafita messo fuori legge (guarda il video). Ieri il Giornale ha pubblicato la storia di questo pezzo grosso del Califfato vissuto e assolto a Milano dal reato di terrorismo nel 2012.

«Siamo stati a casa di Nassim a Sabrata (lo scorso anno ndr). Ho chiesto alla moglie come facevano ad essere così ricchi e lei mi ha risposto che suo marito lavorava con gli italiani» racconta in video la tunisina arrestata. Un eufemismo, che nasconde il sequestro dei 4 tecnici o un precedente accordo di non belligeranza con gli interessi italiani in Libia ben pagato.

La situazione precipita dopo il bombardamento americano sul campo di addestramento dello Stato islamico a Sabrata del 19 febbraio. Le milizie islamiste fedeli a Tripoli dichiarano guerra alle bandiere nere. «Quattro giorni di scontri veramente pesanti - ammette Wahida - Sono salita in macchina con Abdelrahman, che doveva accompagnarci in una casa. Era notte e c'era tanta gente che non conoscevo. Noi donne non dobbiamo sapere i nomi degli emiri e ci hanno detto di non entrare in una stanza».

Nel covo, che dovrebbe essere la prigione degli ostaggi italiani, arriva Abdullah Dabbashi, nome di battaglia Haftar, comandante del Califfo. «Gli uomini si sono consultati. Ho capito che la situazione era grave. È stato dato l'ordine di procurare le auto. Le nostre erano una scura ed una chiara - spiega la testimone - Al mattino alle 10 (1 o 2 marzo ndr) siamo saliti sulle macchine. Noi donne con il volto coperto. Ci dicevano di tenere le teste abbassate e poi hanno fatto salire gli ostaggi. Erano due italiani. Lo sapevamo perché ci hanno anche parlato». Secondo la donna «Haftar voleva portare via tutti e quattro (i sequestrati ndr), ma Gharib ha sostenuto che era impossibile. Uno dei rapitori ha detto che dovevano assicurarsi che la strada fosse sicura. Con loro c'era una grossa somma di denaro».

Il mini convoglio si dirige nel deserto, ad est, verso Zawiya. «Davanti a me c'era la macchina con gli italiani. Ci siamo fermati e sono scesi per mangiare. A questo punto sono arrivati i ribelli (anti Califfo ndr) ed è iniziata la sparatoria. Il nostro gruppo ha urlato: «Scendiamo a patti, che abbiamo gli italiani - racconta Wahida - Non ci hanno creduto e hanno ripreso a sparare colpendo mio figlio». Nel finale la «confessione» si fa confusa: «Il mio gruppo voleva bruciare la macchina con i soldi ed i prigionieri» racconta la donna (guarda il video). La7, al contrario, ha mandato in onda un'altra versione: «La sparatoria si è fatta sempre più intensa. In un'altra macchina c'erano i soldi del riscatto degli ostaggi.

I ribelli le hanno dato fuoco e hanno ucciso gli ostaggi perché nessuno doveva metterci le mani sopra».

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