È l'alba di un altro anno zero. Punto e indietro: si ricomincia da dove abbiamo cominciato, perché questo decennio ha sbattuto in faccia al mondo il terrorismo globale senza trovare mai una soluzione e senza mai avvicinarsi alla fine. Siamo in un 11 settembre infinito. È come se fosse il giorno dopo, con Al Qaida che parla oggi come all’inizio di questa stagione: «A morte tutti i crociati». Paura, bombe, proclami, video e poi ancora paura, bombe, proclami, video.
È un decennio che si muove senza bussole perché tanto non ha punti di riferimento: giriamo attorno allo stesso problema, cerchiamo spiegazioni, appigli, agganci. Ci siamo svegliati nel Duemila con i morti delle Twin Towers e abbiamo intuito che era finito un mondo. Abbiamo perso l’appoggio sulle certezze che ci aveva lasciato il Novecento e ce ne siamo trascinati solo una: l’Occidente si porta a spasso nei secoli e nelle ideologie una Quinta Colonna che ha venduto l’anima all’invasore di turno. I comunisti dell’era del Muro di Berlino hanno lasciato il posto agli jihadisti di oggi. Combattono una guerra contro di noi in nome dello stesso nemico da abbattere: il capitalismo, la presunta immoralità dei costumi, la democrazia, la libertà. C’è qualcuno che fa il gioco sporco dall’interno, qualcuno che in fondo fa il tifo per gli altri, perché questa è una guerra di identità, culture, visioni del mondo e del futuro e c’è chi da noi si sente di dover aiutare l’avanzata del nemico. L’hanno fatto subito dopo l’attacco a New York: quella strana sensazione di inadeguatezza che una certa parte dell’Occidente ha avuto e ha nel condannare la violenza islamica che ha lasciato tremila morti sbriciolati in due giganti di acciaio e cemento buttati giù dagli aerei bomba di Al Qaida. È la voglia di pensare che l’America e noi ce la siamo cercata.
Siamo qui, adesso. Con la paura dell’aereo, con l’immagine di un attentatore normale che può essere il nostro compagno di viaggio, siamo di fronte alla tv a sentire lo slogan della Guerra santa islamica. «Crociati, crociati, crociati». Siamo a Torquato Tasso: sappiamo che la nostra Gerlusalemme liberata è finita molti secoli fa, ma la loro è ancora in corso. Ce l’abbiamo avuta di fronte ciclicamente in questo decennio gattopardesco che ha sconvolto l’umanità in un giorno e poi non è cambiato più. Perché questa guerra non finisce. Non fino a quando l’Occidente non prenderà definitivamente coscienza dell’essere in conflitto permanente per il suo modo di essere e non per il suo modo di rapportarsi all’Islam. Perché c’è un mondo che s’è illuso quando è arrivato Barack Obama: finito il bushismo, cambierà tutto. L’America della diplomazia, dicevano. La pace. Le parole. Invece qui siamo dove siamo sempre stati. Obama ha parlato al mondo musulmano dal Cairo: abbiamo letto del discorso storico, della prima volta di un leader occidentale in trattativa con l’Islam. Eccoci, qualche mese dopo: l’apertura ha come risposta un ragazzo che vuole uccidere quasi trecento europei e americani su un volo per Detroit. Non serve parlare con i terroristi. E Obama non parla, però lascia che gli altri interpretino troppo le sue uscite. Lui spara, come faceva Bush. La guerra giusta, dice di fronte al pianeta mentre ritira il Nobel per la Pace. Forse è l’altro momento simbolo del decennio. Questa contro il terrorismo è una guerra giusta. Allora missili, bombe, arresti, carceri speciali. Combatte Obama perché è l’unica cosa che può fare: lo fa in Afghanistan, lo fa in Pakistan, adesso anche in Yemen. È cambiata la guida planetaria, non i problemi. E neppure i modi per risolverli. L’America, l’Europa, l’Occidente di oggi devono usare le armi esattamente come nell’era pre Obama. Solo che adesso sembra che non sia così, sembra che i rinforzi mandati siano un cambio epocale: lo sono perché attaccheranno di più, mentre il mondo crede che lo faranno di meno. Non è cambiato niente, in questo decennio. L’anno zero significa ricominciare senza sapere bene dove andare. Bombe, ancora bombe. Non c’è alternativa: l’Afghanistan è il campo principale, ma è collegata ogni singola città del globo. La rete del terrore. È un altro termine nato nel post 11 settembre: ce lo terremo, lo sentiremo, lo useremo anche se fa schifo. Perché non se ne esce per ora. Non con la Quinta colonna che approfitta di una pausa tra un attentato islamico e un altro per fare il suo lavoro sporco: ridurre solo a una data il momento che ha cambiato la storia, e alimentare l’incredibile pudore che l’Occidente sente nell’alimentare la memoria dei suoi morti: qualcosa che assomiglia alla paura di dare fastidio all'islam e alla vergogna per essersi sentiti tutti colpiti al cuore. Tutto quello che è successo dopo ha scavalcato quella tragedia: la guerra in Irak, reputata sbagliata e illegittima a scoppio ritardato, ha alimentato il sentimento antiamericano che è cresciuto in Europa e persino in una parte degli Stati Uniti; le centinaia di notizie sul carcere di Guantanamo hanno portato nell'oblio i morti innocenti nell'attentato alle Torri Gemelle per dare dignità solo alle storie dei reclusi in tuta arancione. La paura di giustificare la reazione considerata sproporzionata ha fatto prendere le distanze: l'Europa e l’Occidente pensavano di ritrovare se stessi, almeno. Invece hanno trovato, un anno dietro l’altro, la stessa dinamica di un ciclo fatto di assuefazione al terrore.
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