Politica

Da 60 anni sventola bandiera rossa: le regioni dove il Muro non cade mai

Viaggio nell’anomalia italiana: Emilia, Toscana, Umbria e Marche non hanno mai cambiato colore. Dallo strapotere del vecchio Pci a quello della Cgil

Pierangelo Maurizio

Q uando si parla di Italia di mezzo, o Italia rossa, o Terza Italia come la chiamano gli addetti ai lavori, certi rimandi sono inevitabili. E quando si parla di storia bisogna capirsi bene. La vulgata racconta che un bel giorno del settembre '46 Palmiro Togliatti si catapultò in quel di Reggio: Reggio Emilia, chiaro. Si chiuse in una stanza con il sindaco rosso di Bologna Giuseppe Dozza, quello di Modena Alfeo Corassori e quello reggiano per l'appunto Cesare Campioli. Tutti e tre ex comandanti partigiani, tutti e tre - com'era inevitabile - inseriti nella struttura paramilitare del Partito. Ne uscirono con l'ordine di fermare ammazzamenti e stragi nel Triangolo della morte; poi fu azzerata l'intera federazione di Reggio. A parte che gli sgozzamenti e i desaparecidos continuarono ad allungare l'elenco fin al '48 e anche dopo, però, il fatto è che non si poteva rischiare di far saltare tutto per colpa di quattro scalmanati e qualche psicopatico. La posta in gioco era troppo alta.
Si trattava, come poi è avvenuto, di prendersi un pezzo del Paese, di inserire un cuneo rosso, grande poco meno di un quarto dell'Italia, che - combinazione - geograficamente divide il Nord dal Sud e politicamente è determinante, dapprima con una specie di occupazione militare soft, a bassa intensità. E poi estendendo dall'Emilia Romagna e dalla Toscana, le ex «fascistissime», il cosiddetto «modello emiliano» a Umbria e Marche, e che da qualche tempo sembra attecchire anche al Sud in Campania, Puglia e Basilicata, attraverso un’egemonia politica di ferro. Di ferro? Al tungsteno, corazzato nell'uranio impoverito.
Perché il Muro è crollato, l'Urss non esiste più. Ma nell’Italia di mezzo, come una foresta pietrificata i Ds hanno sempre la maggioranza relativa, la sinistra è al potere ininterrottamente da sessant'anni.
La prima domanda è: il Pci e i poi Ds avrebbero avuto il ruolo egemonico che hanno avuto e hanno nella sinistra italiana e quindi un peso decisivo nella politica italiana senza il controllo fisico di questo pezzo di Paese?
Risposta. Qui nelle quattro regioni rosse - Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche - i Ds hanno il 45 per cento di tutti i loro iscritti sul territorio nazionale (Rifondazione il 30). Cgil, Cisl e Uil mantengono il più alto grado di sindacalizzazione tra i lavoratori dipendenti: è iscritto il 43 per cento in Emilia, il 46 per cento in Umbria, il 35 in Toscana e il 40 nelle Marche, con il sindacato ex di Cofferati in assoluta posizione dominante (il rapporto è di solito di un «cislino» ogni due della Cgil, e di uno a 4 o a 5 per la Uil). Da sola la Cgil in queste zone ha poco meno di un terzo (per la precisione il 29,6 per cento) dei suoi supporter, pensionati compresi.
Tutto questo è un caso unico in Occidente. Da tempo quelli della Fondazione Il Mulino, a Bologna, che non si può dire siano dei megafoni della Casa delle libertà, spiegano che il «modello» dell'Italia rossa storicamente si è basato su due condizioni fondamentali: «a) un sistema nel quale un solo partito era in grado di raggiungere una quota di seggi pari o prossima alla maggioranza assoluta; b) la forte coesione e gerarchizzazione interna del Pci». E il professor Francesco Ramella, docente all'Università di Urbino, anche lui non è certo uno sfegatato polista, paragona chi voglia capire i meccanismi di questa anomalia tutta italiana a un viaggiatore che si ritrova «solo su una spiaggia tropicale vicino a un villaggio indigeno».
Eppure da qui è nato il «pregiudizio positivo» immarcescibile tra l'intellighenzia nostrana. Loro, comunisti e postcomunisti, ad amministrare sono i Migliori. Se Giorgio Bocca per anni si è spellato le mani ad applaudire «il socialismo fatto da noi», l'ultima trovata è di Edmondo Berselli. Nel brillante saggio «Quel gran pezzo dell’Emilia», pubblicato da Mondadori, edizione 2004, è riuscito a scrivere che se da queste zone sono usciti fuori cantanti come Caterina Caselli, il Vasco, Pierangelo Bertoli, Francesco Guccini, i Nomadi e il meglio del pop italiano, il merito è dei comunisti: «Sapevi che governavano loro e governavano bene. Alla fine il voto glielo davi e tu potevi pensare ad altro» è la tesi. Geniale.
Benvenuti nell’ultimo lembo di socialismo reale. Dove le nomenklature politiche dominano stabilmente Comune, Regione e Provincia, nella più totale osmosi tra partito e amministrazione, perpetuano se stesse e per sessant'anni il voto è rimasto nel freezer. Le carriere da queste parti sono state a lungo di due tipi. Quella di Giuseppe Dozza: segretario della federazione giovanile comunista dal 1923 al 1927, espatriato clandestinamente, membro del presidium dell'Internazionale, dirigente del Fronte popolare in Francia, comandante partigiano dopo il 25 luglio 1943 e sindaco di Bologna per vent'anni. O, successivamente, come quella di Lanfranco Turci, presidente della giunta regionale emiliana dal '78 all'86, poi capo delle Coop e quindi parlamentare Ds. Poi, dopo la fine del Muro, molte cose sono cambiate. Il partito come tutti i partiti si è fatto light, formula zero grassi.
Ma la presa sulla Repubblica socialista di mezz'Italia è stata mantenuta intatta. Come? Innanzitutto attraverso il controllo totale del potere politico e un tasso di consociativismo che nemmeno la Dc nel profondo Veneto si sognava. Da queste parti, a Bologna per esempio, al di là delle apparenze è sempiterno il vecchio asse Pci-Confindustria-Cgil, oltre alla Lega delle coop naturalmente: in cambio dell'appoggio gli industriali hanno mano libera nella gestione delle aree, e la Cgil nelle «aziende amiche» non si è mai tirata indietro per rendere digeribili i licenziamenti (più rigida invece nelle aziende aderenti all'Api, l'Associazione delle piccole e medie imprese). Da quanto sta avvenendo in questi giorni con le nomine da parte di Comune e Provincia bolognesi sembra che la cosa continui. Ma è nel controllo sociale che il «modello emiliano» esprime il meglio di sé.
1. continua
pierangelo.

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