A 91 anni

Il 26 dicembre scorso aveva festeggiato in allegria i suoi novantun anni (ossia, come ha confidato di recente, «il primo anniversario del mio progressivo slancio verso il secolo») ma non ce l’ha fatta, ed è quasi incredibile pensare che non rivedremo più sulla scena della vita, oltre che sulle sacre tavole del teatro, un attore della tempra di Mario Scaccia. Che il suo regista prediletto Franco Enriquez, all’epoca felice della Compagnia dei Quattro che lo laureò protagonista di spicco accanto a colleghi della statura di Glauco Mauri e Valeria Moriconi, definì «non un artista ma un emulo di Benvenuto Cellini perché nessuno come lui è in grado di cesellare la parola».
Un giudizio, nel ’64, ampiamente condiviso dal decano dei critici inglesi Kenneth Tynan quando lo vide impersonare con un’autorità pari soltanto alla sua sorprendente carica d’ironia il ruolo del cortigiano per eccellenza, Polonio, nella famosa edizione dell’Amleto diretta da Zeffirelli che approdò all’Old Vic suscitando l’entusiasmo di John Gielgud. Riconoscimenti che Scaccia, con l’abituale umiltà del grande artigiano, non teneva nel minimo conto limitandosi a sorridere con impagabile sarcasmo ogni volta che qualcuno, in camerino, tornava a ricordarglielo. Perché questo attore, simbolo eterno della Città Eterna che nel dopoguerra si era fatto le ossa nel primo CUT di Roma accanto ai giovanissimi Marcello Mastroianni e Giulietta Masina dopo essersi dato per breve tempo all’insegnamento (dove, ironia della sorte furono suoi allievi Scaparro e Sandro Sequi, i registi cardine degli anni settanta), non ha mai ostentato i vezzi e i capricci tipici di certo divismo.
Persino quando uno scrittore come Malaparte scrisse per lui nel ’55 il personaggio clou della «scandalosa» rivista per suoni, immagini e parole Sexophone. E nemmeno quando l’amico di sempre Carlo Terron a lui si ispirò nella creazione di quel concerto per attore solista intitolato a Nerone. Che, ai primordi degli anni settanta, fece gridare la stampa al miracolo di Scaccia, salutato a furor di popolo come il nuovo Petrolini. Ma la grandezza dell’attore che si provò con tutto e con tutti, da Squarzina a Ronconi tra i registi e, tra gli autori, passò con aitante disinvoltura dal tragico Eschilo del Prometeo incatenato al prediletto Feydeau del Signore va a caccia senza per questo trascurare la lezione del boulevard (esemplare, in questo senso, fu la sua finissima recitazione, accanto a una partner spiritosa come Laura Adani, di un classico della risata d’oltralpe come Croque-Monsieur di Marcel Mithois) consisteva, lo ripetiamo ahimé per l’ultima volta, nella sua prodigiosa versatilità.
Che lo portò a credere per primo contro tutto e tutti nel talento di Durrenmatt di cui portò in scena, con esiti altissimi, quel capolavoro del Matrimonio del signor Mississippi. Per non parlare, nell’ambito di un contesto privilegiato come la ricordata Compagnia dei Quattro, i suoi memorabili Shakespeare, da Rosalinda al Mercante di Venezia. Cui intercalò con grazia sopraffina l’omaggio a Lorca della Barraca e, in tema di Ionesco, quel Rinoceronte di cui condivise gli allori accanto a Marcello Moretti, l’Arlecchino princeps di Giorgio Strehler. Negli ultimi anni si diceva che il suo cruccio fosse quello di non riuscir più a rimettere in scena La scuola delle mogli e Romolo il grande.

Due testi, come la prediletta Mandragola, che gli erano rimasti nel cuore. «Non per vanità - ripeteva - ma perché sono talmente importanti da meritarsi una ripresa all’anno come si fa a Natale con la Messa di Mezzanotte».

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