Abramovic, le radici pagane dell’eros

Con un cast di gente comune, l’artista ha fatto rivivere gli antichi riti propiziatori legati alla fertilizzazione della terra

Marina Gersony

Si apre domani all’Hangar Bicocca la mostra «Balkan Epic» di Marina Abramovic, a cura di Adelina von Fürstenberg. Trasformato per l’occasione in uno spettacolare allestimento con una serie di multischermi, l’ex capannone industriale ospita per tre mesi sei opere della grande artista serba-montenegrina: il nuovo lavoro Balkan Erotic Epic (un’installazione video e un film di dodici minuti) e altre cinque video installazioni, create tra il 2001 e il 2003.
Per cogliere fino in fondo lo spirito di questa straordinaria performer di fama mondiale, non si può prescindere dalla sua biografia e soprattutto dalla sua «balcanicità». Abramovic nasce a Belgrado nel 1946 e il resto è storia: studi all’Accademia di Belle Arti, i primi passi nel mondo dell’arte, l’abbandono del suo Paese, il successo e il ritorno in seguito al conflitto nella seconda metà degli anni Novanta. Una guerra che l’ha colpita nel profondo influenzando il suo percorso artistico. Le sue opere, infatti, spesso provocatorie per la loro crudezza, continuano a raccontare, al di là del contesto storico, una quotidianità semplice che sa però anche essere terrificante e violenta. Una sorta di ritualità dove il corpo viene utilizzato come soggetto, ma anche come mezzo per mettere alla prova i propri limiti fisici e mentali (almeno un paio di volte ha rischiato di morire).
Dicevamo, la sua «balcanicità»: è infatti alla luce delle sue radici che affondano in una terra dura - ma anche vitale e dotata di senso della teatralità - che va letta tutta la sua opera. In «Balkan Erotic Epic» il sesso viene rappresentato in modo esplicito e libero («Da noi il sesso è una cosa sana. Si mangia bene e si fa sesso in modo sano. Tutto il resto è un casino, ma questa è un’altra storia»). Dopo aver scoperto alcuni manoscritti antichi che dimostrano come questo comportamento fosse radicato nella cultura serba sin dal Medioevo, Abramovic è tornata a Belgrado. Con la collaborazione di Bas Celik, una casa cinematografica serba, ha iniziato a scritturare un cast di gente comune per poter ricreare quegli antichi riti propiziatori pagani legati alla fertilizzazione della terra, alla interruzione della pioggia, al profondo legame esistente tra gli uomini (e le donne) jugoslavi e la natura. Il risultato finale include alcune immagini riprese dagli archivi e altre re-inventate dall’artista: uomini in costume nazionale che mostrano impassibili un’erezione; uomini che copulano contemporaneamente con la terra, come se fosse la loro amata; donne che mostrano i seni e guardano il cielo; donne fradice di pioggia, sporche di fango, sfinite, che mostrano la propria intimità alla terra.
Sono immagini eloquenti, quasi mistiche, che possono sembrare intollerabili alla sensibilità occidentale, ma vanno lette, come dicevamo, alla luce di un mondo primitivo e pagano, arcaico e primordiale che rievoca valori sepolti nella nostra coscienza; valori che, nel riaffiorare, possono indubbiamente turbare.

Oltre a «Balkan Erotic Epic» saranno in mostra altre cinque opere che meriterebbero un discorso a parte (Balkan Baroque, The Hero, Count on Us, Tesla Urn, Nude with Skeleton): in tutte c’è comunque, in modo più o meno esplicito, la commistione tra bene e male, vita e morte: quest’ultima, più che il sesso, è l’ultimo vero tabù.
La mostra «Balkan Epic», catalogo Skira, sarà aperta fino al 23 aprile all’Hangar Bicocca, viale Sarca 336.

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