Afghanistan, ora i «ribelli» chiedono fiducia

Rizzo (Pdci): evitare la lunga notte delle larghe intese

Marianna Bartoccelli

da Roma

Alla fine quasi tutti i «ribelli» chiedono il voto di fiducia per essere «costretti» a votare sì, sacrificando coscienza e credo politico sull’altare della ragion di governo. Il decreto sul rifinanziamento delle missioni militari all’estero, che include all’articolo 2 quella tanto contestata a sinistra dell’Afghanistan, arriverà al Senato domani e verrà messo in votazione non prima di mercoledì. «Un weekend di paura e di trattative», è la sintesi di Antonio Martuscello, deputato di Fi. Saranno giorni tormentati per la maggioranza sulla quale pesa più come un macigno che come un aiuto la posizione della Cdl ribadita da Silvio Berlusconi: «Voteremo sì anche al Senato, dove probabilmente la maggioranza non avrà i voti per fare passare il decreto», ha detto il leader del centrodestra rendendo ancora più complessa la partita che l’Unione giocherà nei prossimi giorni. Per Prodi diventa decisivo quindi che la sua maggioranza abbia i voti sufficienti da sola e l’atmosfera che si vive a Palazzo Chigi è resa esplicita da Vannino Chiti, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, che lo ha ammesso senza giri di parole: «Se la maggioranza non dovesse essere più tale è finita, si torna al voto».
E il ministro della Giustizia coglie subito l’occasione per far pesare la sua alleanza: «Speriamo che la responsabilità prevalga - afferma Clemente Mastella -, personalmente credo che in fondo andrà così, ma se non succede si va alle elezioni, e con le mani libere». Le minacce arrivano dalle ali estreme della sinistra, Verdi, Rifondazione e Pdci, e tutti chiedono il voto di fiducia per autoblindarsi. «La richiesta di fiducia è la soluzione», afferma infatti Marco Rizzo, presidente Pdci al Parlamento europeo. Sottolineando come il movimento contro la guerra non può essere d’accordo sul decreto ma «il governo Prodi non deve cadere perché la soluzione sarebbe un governo sempre meno orientato a sinistra, oppure la lunga notte della grande coalizione». Simile la posizione espressa da Rifondazione il cui capogruppo alla Camera, Giovanni Russo Spena, non ha dubbi: primo obiettivo non fare cadere il governo Prodi. E così l’ipotesi che sta prendendo piede è quella di porre la fiducia soltanto sull’articolo 2, ma c’è chi getta il seme del dubbio: e se per vendicarsi di essere stati costretti a dire sì con il voto di fiducia c’è chi vota no agli altri articoli della legge? Ovviamente questo creerebbe ancora più imbarazzo al governo.
Ma non tutti sono d’accordo sul voto di fiducia. Per il più irriducibile dei senatori di Rc, Luigi Malabarba, si tratta di «un ricatto», mentre per Roberto Villetti, della Rosa nel pugno, «non solo bisogna stare attenti e fare bene i conti» per non fare ripetere a Prodi l’avventura del ’98 quando mancò un voto alla fiducia e dovette andare a casa, ma mettere la fiducia significa «affidare alle mani di alcuni senatori dissidenti con la coscienza inquieta non soltanto l’autosufficienza della maggioranza ma la vita stessa del Governo». Punta sulla autoresponsabilità il capogruppo alla Camera dell’Idv, Massimo Donadi, per il quale «la maggioranza non ha alternative». E se c’è chi, come Cesare Salvi, senatore Ds della corrente Socialismo 2000, dichiara che deciderà il da fare mercoledì stesso, altri due senatori contrari alla missione in Afghanistan, Paolo Brutti e Piero Di Siena, anticipano che voteranno sì per garantire l’unità della maggioranza.
«Una maggioranza che non ha linea unitaria - accusa dal centrodestra Gianfranco Rotondi - prima o poi cadrà, o sulle missioni all’estero o sulla finanziaria». Come teme lo stesso ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero di Rc.

«Prodi deve ammettere di non avere maggioranza», tuona Renato Schifani, presidente dei senatori azzurri, mentre Francesco Giro, deputato di Fi, sottolinea che se Prodi dovesse mettere la fiducia «dimostrerebbe di non avere maggioranza» e questo modificherebbe gli scenari della politica evidenziando la scelta di profonda coerenza rispetto alla politica estera espressa da Silvio Berlusconi «e la sua capacità di individuare nuove soluzioni istituzionali e di governo».

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