Agli esuli cacciati via nel 1970: «Vi ho salvato dalla deportazione»

I 20mila italiani cacciati dalla Libia a pedate nel 1970 dovrebbero ringraziarlo, perché è stato il Colonnello ad opporsi alla loro deportazione in massa in un lager della Cirenaica, dove sarebbero stati decimati dalla prigionia. Gli esuli potrebbero fondare un partito, che il munifico leader libico è pronto a sovvenzionare, perché i governi italiani li hanno sempre trattati a pesci in faccia.
Gheddafi superstar ieri mattina all’ultima puntata delle sue sceneggiate romane. Con espatriati dalla Libia o loro eredi, rigorosamente selezionati dall’ambasciata libica, che fanno a gara per un autografo, in rigoroso inchiostro verde, dal grande capo della Jamahiriya socialista ed islamica. L’appuntamento era a villa Pamphili, ma non nella mitica tenda beduina. «Eravamo in 220 circa sotto un enorme gazebo bianco, con le sedie di plastica allineate. Lui parlava da un palchetto, a braccio ed è andato avanti per un’ora e cinque minuti», racconta un italiano nato a Tripoli, che ha ricevuto l’invito. Il suo nome è meglio non farlo «perché in Libia ci voglio tornare». Come sempre il Colonnello è arrivato in ritardo di 90 minuti e ha attaccato con il solito pistolotto storico sulle colpe del colonialismo italiano. «Ad un certo punto ha praticamente detto che dobbiamo ringraziarlo per averci salvato – racconta la fonte de Il Giornale – perché quando prese il potere una parte del consiglio della rivoluzione voleva deportare tutti gli italiani in Libia in un campo di concentramento ad El Agheila, in Cirenaica. Lui si è opposto e ha fatto valere la sua scelta di mandarci via». E sequestrare i beni degli italiani (400 miliardi di allora) espropriati e nazionalizzati. «Ho tre anni in più di Gheddafi e tre in meno di Berlusconi, le umiliazioni ed il dolore nei giorni in cui ci hanno cacciato dalla Libia me li ricordo bene. Non solo ti portavano via tutto, ma non te ne potevi andare prima di ottenere il certificato di nullatenenza». Lo racconta a Il Giornale, Giovanna Ortu, presidente dell’Airl, l’Associazione italiani rimpatriati dalla Libia, che aveva 30 anni quando è stata cacciata da Tripoli. Ieri sotto il gazebo non c’era, perché gli inviti non sono mai arrivati. «È deplorevole che non si sia ritenuto necessario inserire una rappresentanza dei rimpatriati italiani nell’agenda ufficiale – tuona la Ortu -. Davo per scontato un incontro con Gheddafi. Ma forse è meglio così. Ci siamo evitati un’umiliazione visti i toni del Colonnello in questi giorni».
Sotto il gazebo, invece, c’era un gruppo di Latina con tanto di cappellino verde e la scritta Italia-Libia. «Gheddafi ha detto che i nostri governi ci hanno sempre trattato malissimo – spiega la fonte de Il Giornale sotto il gazebo –. Ci ha incitato a fondare un partito facendo capire che lo avrebbe sovvenzionato». E giù gli applausi delle vittime a chi li ha cacciati.
Fra il pubblico non sono mancate le scene stucchevoli, come qualche fan italiano armato di gigantografia di Gheddafi, che è riuscito a farsi firmare il “santino”. Un espatriato voleva prendere la parola per chiedere ingresso senza visto in Libia, apertura degli archivi di Tripoli sui beni italiani nazionalizzati e risarcimento almeno parziale degli espropri, ma non ce l’ha fatta. Un gruppetto di donne lo ha preceduto per farsi autografare l’invito con rigoroso inchiostro verde, come se Gheddafi fosse una star di Hollywood. Qualcuno gli ha regalato un quadro in argento ed il Colonnello bonario ha assicurato: «Costituite delle società, tornate a lavorare da noi. Avrete dei privilegi rispetto agli italiani che non sono nati in Libia». La Ortu ricorda che nel 1970 i libici «ti frugavano anche nei capelli. Non si poteva portare via neppure gli orecchini. L’argenteria di famiglia l’abbiamo consegnata ad amici arabi e americani, che poi ce l’hanno fatta riavere. Si poteva partire con sole 34mila lire in tasca».
Sotto il gazebo di villa Pamphili l’impressione era di grande cordialità con Gheddafi, scialle marrone e camicia all’orientale, che dispensava strette di mano e sorrisi. Però Umberto Gobbi, settantenne, che in Libia ha vissuto a lungo, ammetteva: «Mi sento un po’ preso in giro».

Shalom Tesciuba, leader carismatico della comunità ebraica tripolina, ha consegnato una lettera all’ambasciatore di Tripoli scrivendo che “gli ebrei non abbasseranno la testa e non dissacreranno il sabato”. Giorno fissato apposta dai libici per un incontro “riparatore” con Gheddafi, che li ha cacciati come gli italiani.
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