Avverti una vitalità contagiosa quando varchi la soglia di H-Farm, la fattoria (Farm) del sapere (H sta per human/umano) che Riccardo Donadon ha fondato tredici anni fa a Roncade, nel verde trevigiano, a un passo da Venezia. È la piattaforma di innovazione numero uno in Italia e fra le più prestigiose d'Europa, da tre anni quotata all'Aim di Borsa Italiana. Si occupa di consulenza ad aziende implementandone i processi digitali, è incubatore e acceleratore di start up. Infine, offre una formazione d'eccellenza dalla materna all'università. Entro settembre 2018, il Campus - inserito dal boss di Apple Tim Cook fra i top 100 al mondo - doveva essere ampliato così da ospitare 1500 studenti. La Commissione della Regione Veneto per la valutazione d'impatto ambientale ha chiesto ulteriori verifiche. Quindi tutto bloccato. Brutto colpo per Donadon.
In aprile meditava di trasferirsi. Sempre convinto?
«Se avessimo chiuso l'iter entro l'estate, non saremmo riusciti ad attivare il Campus a settembre ma almeno si poteva trovare una soluzione intermedia. Il processo sta diventando lungo, dovremo trovare un compromesso assicurando continuità a ciò che è già attivato e avviare il resto altrove».
Per esempio a Milano?
«Per la verità, abbiamo già uno spazio di 2mila metri a Milano, ora avremmo bisogno di altri 15mila così da svilupparci ulteriormente. Di sicuro, cresceremo molto in questa città».
Cosa la rende più appetibile rispetto ad altre?
«Si colloca tra le principali capitali del mondo perché c'è freschezza, brillantezza, voglia di vivere in modo compatibile con la crescita che c'è in tutto il mondo. Il resto dell'Italia è eccellente su tante cose, ma non vi sono altri luoghi che esprimano questo legame con il mondo. Ci sono aree estremamente frizzanti, penso anzitutto all'Emilia Romagna, ma non si agganciano alle dinamiche delle città internazionali, hanno un loro modo di essere, sanno fare impresa, ma offrono meno possibilità di vivere l'interscambio con il movimento di talenti».
Appelli al nuovo Governo?
«Dopo l'esperienza con Corrado Passera, quando entrai in una commissione per lo sviluppo di nuove imprese, dico che meno fanno e meglio è. Basta che ci lascino lavorare. Oggi l'Italia ha troppe regole».
E il vostro recente caso lo dimostra.
«Siamo ostaggio di commissioni che non deliberano per l'ipotesi di un'esondazione del fiume Piave, che da Roncade dista 14 chilometri. Le istituzioni devono lasciarci lavorare. Se esistono realtà come questa, allora io dico: consentite che crescano, clonatele. Connettete».
Secondo lei, in questa situazione, investitori stranieri hanno rinunciato a operazioni in Italia?
«Non nel nostro caso. Anzi, il primo semestre è andato molto bene. Forse il mercato s'è abituato».
Cosa le viene in mente se ripensa all'alba di H-Farm?
«Era una start up che lanciava start up, un impegno che ci spronava a essere solidissimi. In dieci anni abbiamo affermato un modello, negli ultimi due l'abbiamo consolidato. Ora non ci rimane che scalare. Lavoriamo nell'innovazione quindi siamo in continua evoluzione».
Cosa temevate di più in fase di decollo?
«Che l'azienda non riuscisse a reggere sul mercato italiano. Sentivamo di essere percepiti come un qualcosa di estraneo al nostro territorio».
Quanto è arretrata, l'Europa, in tema di innovazione.
«L'Europa rischia di rimanere indietro. Quando Macron ha annunciato investimenti nel settore, la notizia ha destato stupore: ma dopo dieci anni di vuoto era ragionevole che operasse in tal senso. In California, Israele e Cina si genera un'economia che è completamente a sé stante».
È vero che non completò gli studi universitari perché aveva già progetti in testa?
«Lavoravo in Verde Sport, il braccio operativo nello sport del Gruppo Benetton, poi lanciai il primo centro commerciale virtuale. Nel 1998 era la volta di E-TREE, realizzavamo portali per grandi gruppi».
In quanti eravate?
«In sette, ma in tre anni i collaboratori diventarono 150 passando da 50 milioni a 20 miliardi di lire di fatturato. Nel 2001 vendevo parte delle quote, uscivo nel 2003 con l'idea di concedermi un anno sabbatico».
Che fece in quell'anno?
«Progettai H-Farm. Ci occupiamo di tutte le fasce d'età. Dai 3 ai 18 anni, inoltre abbiamo avviato la laurea in Digital Management così come sta per partire un corso MBA in collaborazione con l'Università Milano-Bicocca e l'americana Millikin».
Quanto è importante la formazione?
«Tanto quanto finanziare giovani di talento. Mi consente di dare continuità all'investimento che sto facendo. È determinante investire sulla formazione, nei prossimi dieci anni tanti lavori spariranno e se le persone non saranno preparate, si troveranno spiazzate. Qui si preparano talenti che entrano in stretto contatto con le start up integrando il sapere con il saper fare, infine l'area investimenti - terzo pilastro H-Farm - dà la benzina al tutto».
L'imprenditorialità è stata inserita fra le competenze del curriculum scolastico europeo. Ma si può insegnare?
«Possiamo pensare a una forma mentis che poi porti verso un concetto di intraprendenza. In tal senso sono essenziali le figure di riferimento, i cosiddetti role model. Noi spesso invitiamo capi d'azienda e imprenditori di successo chiedendo loro di raccontare le proprie esperienze così da essere fonte d'ispirazione e stimolo per intendere il mondo del lavoro in modo più intraprendente: questo è uno degli obiettivi che ci stiamo dando».
E lei, come si scoprì imprenditore?
«Sono stato fortunato a nascere qui, in questo territorio che effettivamente stimola a essere imprenditori. Opportunità che si moltiplicano in H Farm, un contesto vivace che stimola a essere intraprendenti, a guardare al domani».
Di cosa va particolarmente fiero Donadon?
«D'aver creato un bacino di talenti che hanno fatto quadrato attorno a un luogo. Come ci ha ricordato Enrico Moretti, oggi l'economia è una questione di intreccio di buoni impieghi, talento e investimenti, il territorio aggrega conoscenza e talento in determinati ambiti. In tal senso, l'Italia ha grandi potenzialità, però dovrebbe valorizzare di più i luoghi: potrebbe aggregare ovunque. Quando vince il talento, allora migliora la qualità della vita».
Sbaglio o pensava a Vinci?
«Vinci è spettacolare. Creare un centro di talenti lì è il sogno di un ragazzo che conosco bene e che lavora in un'azienda americana. Chissà, magari un giorno riusciremo a tagliare anche questo traguardo».
Le nostre aziende quanto sono consapevoli dei cambiamenti in atto?
«Tante nostre aziende sono modernissime in termini di prodotto, ma tradizionali nell'impostazione organizzativa. Rispetto a un tempo, per avere successo non bisogna fare l'intero percorso dalla A alla Z. Oggi basta anche solo incidere su una di queste lettere. Ci sono piattaforme che consentono di non fare tutti gli investimenti chiesti in passato».
Esempi?
«È con investimenti minimali che sono stati creati Uber e Alibaba, compagnie che non producono nulla ma fanno da intermediari. Oggi il mercato è compatibile e sostenibile, non ha senso fare una compagnia di taxi acquistando una flotta di auto: basta usare quelle che ci sono. Il messaggio è forte se lo si intercetta: ti consente di entrare sul mercato con piccoli investimenti».
Quali sono i punti di forza dell'imprenditoria italiana?
«La grandissima capacità di fare, l'abilità manifatturiera, l'alta artigianalità. In genere si tratta di imprese che non diventano multinazionali, tuttavia hanno il vantaggio di saper risolvere temi complessi».
Le note dolenti, invece?
«I campanili che a volte impediscono di fare squadra, di mettere le cose assieme rendendoci più competitivi. Un altro aspetto di debolezza, che però non è esclusivamente italiano ma più generalmente europeo, è la crescita disorganica in tema di innovazione. Oggi la crescita è diversa rispetto a quella in cui si imbatterono le imprese nate anni fa, l'economia era totalmente diversa, centrata su un consumatore che oggi ha cambiato atteggiamento. Un tempo aveva bisogno di cose, oggi preferisce condividerle».
Cambi continui e repentini.
«Un tempo l'accelerazione era lineare, e gli accadimenti si avevano ogni 10 massimo 5 anni. Ora la velocità è esponenziale, le accelerazioni sono violente, ogni tre anni se non meno, cambiano le tipologie di consumo travolgendo paradigmi, ci sono forti momenti di discontinuità che mettono in crisi modelli di business».
Spesso parla con toni entusiasti della qualità della vita italiana. Eppure gli stipendi sono bassi e la burocrazia è un freno.
«Le mie valutazioni partono da un punto di vista umano: l'uomo al centro del mondo, della tecnologia, dei nuovi modelli economici. Da questo punto di vista, l'Italia è perfetta per fare impresa dati i rapporti umani buoni, la qualità delle relazioni. Tutto ciò che circonda la persona è positivo se facciamo un confronto con altri Paesi. Per non parlare dell'attenzione al cibo, della bellezza dell'ambiente. Certo, se guardiamo alle opportunità di lavoro, siamo agli ultimi posti. Se riuscissimo a mettere in ordine certe cose, saremmo in un paradiso. Anch'io alterno alti e bassi. Sono generalmente ottimista, ma dopo il blocco del Campus sono diventato più pessimista».
Il suo approccio è cambiato?
«Credo che il nostro Paese riesca a farsi male in modo violento. Ogni volta che parte un nuovo Governo, spero che si faccia pulizia delle cose negative. Poi la storia insegna il contrario».
Ragion per cui, meglio che i governi intervengano il meno possibile
«Se l'idea è quella di fare nuove leggi, è meglio che non facciano niente. Se le tolgono, bene, anzi: lavorino sodo, stiamo andando in cortocircuito fra leggi, leggine e commissioni che devono dare l'ultima parola su tutto. Così si blocca l'economia, il fare, il costruire».
Curiosità. Quanto costa studiare in H-Farm?
«Intorno agli 8mila euro l'anno per ragazzi fino ai 16 anni, mentre per l'università la quota è di 7500 euro (il Senato accademico ha imposto un tetto). Siamo in Borsa. Sulla scuola stiamo investendo moltissimo, e siamo forzati a portarla in una situazione di profitto. L'idea è di aprire le porte non solo a chi dà profitto, ma anche al talento, e pure al talento che non riesce a permettersi le rette. Abbiamo creato la Fondazione H for Human per aiutare i talenti con borse di studio. Abbiamo un ottimo rapporto con Audi, ora stiamo ragionando con Unicredit e Cattolica. Stiamo sollecitando tutti affinché ci diano una mano».
Come sono le sue giornate tipo?
«Migliori rispetto agli anni scorsi, ora riesco a portare due dei tre figli a scuola, quindi arrivo in ufficio verso le 9. La sera, difficilmente riesco a rientrare a casa prima delle 9, se non più tardi quando vi sono cene. Onestamente non mi lamento, lavoro in un bel posto e contesto».
Viaggi?
«Non troppi. Circa uno al mese all'estero, poi spostamenti qui in Italia».
Come reputa la sua gestione del tempo, il bene più prezioso dell'uomo del Duemila?
«Ogni mattina cerco di fare un
piano e ottimizzare ogni minuto. Poi arrivo in H Farm e l'agenda si scombussola. Una cosa inevitabile date le accelerazioni improvvise e dunque l'esigenza di cogliere l'opportunità che a conti fatti vivacizzano l'agenda».
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