Aiuto, ci rubano il calcio

Mediaset offre undici milioni e di malavoglia, la Rai ne offre trenta per dovere sociale, i padroni del campionato chiedono molto di più. Risultato: il prodotto resta invenduto sulla bancarella. Addio Novantesimi Minuti e Domeniche sportive, addio al cosiddetto calcio in chiaro, cioè trasversale e democratico, cioè a disposizione di tutti. Sopravvive soltanto quello in scuro, come potremmo definirlo per antitesi, vale a dire il pacchetto a pagamento di Sky e del digitale terrestre.
Vogliamo dirlo? Stiamo contemplando un capolavoro intellettuale. Un'ardita opera dell’ingegno. Lo sport più amato e più sinceramente radicato nelle case italiane si trasforma in un passatempo d’élite. Sta tutta in questa avvilente contraddizione di termini, come un grottesco e irripetibile ossimoro, la grandezza della trattativa abortita. Se entro sabato nessuno fa marcia indietro, come spesso succede al mercato delle vacche, dobbiamo rassegnarci a una nuova storia e a un nuovo costume: sentiremo parlare del calcio da quelli che lo seguono in abbonamento, come i fanatici del bridge o del biliardo o del basket En-bi-ei seguono i loro tornei sui canali più strani alle ore più strane. A sessant’anni dalla nascita della televisione, l’Italia firma la genialità dell’impresa: di fatto, si riavvolge la moviola del tempo e si torna esattamente all’inizio, quando i nostri padri si riunivano a scrocco nel tinello dei pochi amici che avevano il televisore, o al massimo si permettevano una cedrata per avere il posto nei bar con l’apparecchio appeso sotto al soffitto.
Così, noi: o si corre tutti a sottoscrivere l’abbonamento Sky (che sentitamente ringrazia per il buon esito della trattativa), oppure bisogna ricominciare la gavetta dall’amico abbonato e nel bar sottocasa. Decisamente un grosso risultato. Complimenti a tutti quanti. Ma complimenti soprattutto ai sagaci esperti del marketing calcio-televisivo: da anni coltivano il sogno di trasformare il calcio tv in cinema e teatro, cioè in uno spettacolo a pagamento, ma oggi come oggi sono molto prossimi all’esclusione della massa dallo sport di massa. Vedano loro.
Intanto si chiude il sipario nero su una delle nostre più gloriose tradizioni: quello che con neologismo modernista chiamiamo il treno dei gol. Il treno deraglia e si schianta. Più indietro non lo chiamavano treno, ma era comunque quella cosa lì, quell’appuntamento lì, quella delizia lì: il meglio di ciascuna partita, ripulita dalle fasi di gioco stucchevoli e insulse, in rapida successione. Dopo, soltanto dopo, la domenica poteva dirsi compiuta. Fino all'altro ieri. Da domani, sarà un’altra cosa: o si paga, o il buio. O il sentito dire. O le acrobatiche ricostruzioni, con ausilio delle lavagne e dei Tizianicrudeli, che cercano in qualche modo di rendere l’idea dei gol a chi non potrà mai vederli. Se non in quattro pezzentissimi minuti nei frettolosi servizi dei tiggì serali. E sarebbe vita, questa?
Sicuramente ci spiegheranno che questo punto di rottura, traumatico e sofferto, prima o poi l’avremmo comunque toccato. Ineluttabile. Aggiungeranno che il calcio in chiaro, cioè i Novantesimi minuti ed equivalenti, erano sempre più in crisi. Specificheranno che il futuro è così, un luogo e un tempo dove ciascuno paga quello che prende, o prende quello che paga. Rideranno addirittura al pensiero che qualcuno di noi, nostalgico e obsoleto, pianga persino sulla fine di Tutto il calcio minuto per minuto, la madre di tutte le trasmissioni radiofoniche, anch’essa tumulata dall’accordo mancato (una carognata storica, sul piano sentimentale).
Tutte disquisizioni molto giuste e molto sensate, nella nuda logica della domanda e dell’offerta. Ma che non spostano di una virgola il senso di vuoto e di malinconia. Esiste pur sempre qualche essere umano cui basta la modica dose di calcio in chiaro, senza abbonamenti e senza pagamenti, che si è sempre iniettato sin dalla più tenera età.

Passare da Tutto il calcio minuto per minuto a “Tutto il calcio milione per milione” non è quello che sognavamo tanto tempo fa, scambiandoci le figurine Panini. Se il futuro è questo, qualcuno di noi vuole scendere.
Cristiano Gatti

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