Il grande istrione e il talento consacrato. Il padre storico e il fuoriclasse. Giorgio Albertazzi e Franco Branciaroli, praticamente tutto il teatro classico italiano dal dopoguerra a oggi. Incontrarli può essere rivelatore in un momento in cui la finanziaria prevede tagli tesi a ridurre sovvenzioni e premi proprio ora che la prosa a teatro è in grande espansione.
Che cosa accomuna o divide il leader indiscusso di ieri al capopopolo di razza di oggi? Forse l’amore del rischio e la voglia di giocare allo scoperto?
Branciaroli: «Sosteniamo entrambi la necessità di fare un teatro d’arte che trovi la sua ragione d’essere nella parola dei grandi autori. Ma la nostra somiglianza finisce qui. La voglia, o meglio la necessità di giocare allo scoperto mi riguarda da vicino visto che faccio da sempre un teatro privato e non Albertazzi che fino a ieri è stato direttore del Teatro di Roma e, prima ancora, di un Festival come quello di Taormina».
Albertazzi: «Nutro grande stima per Branciaroli, un attore che da sempre inciampa nell’arte e, il più delle volte, l’acchiappa alla grande. Per quanto riguarda il repertorio, invece, abbiamo scarsi punti di contatto. Se si esclude la voglia che d’improvviso mi prese, tanti anni fa, prima di mettere in scena Antonio e Cleopatra con la Proclemer e la Pozzi, di contattare Testori perché concepisse una pièce su Verlaine e Rimbaud. Che il grande di Novate, poi, scrisse per sé e Branciaroli col titolo Verbò».
Vi ritenete di essere lo specchio uno dell’altro?
Albertazzi: «Siamo uno lo specchio dell’altro nel senso che ognuno di noi cerca lo spirito, contro il materialismo in nome dell’umanesimo. Io, per esempio, voglio rifare Amleto. Ma così come sono, da vecchio elfo che s’interroga sui massimi sistemi. Ci penso da quando recito nel Sogno di una notte di mezza estate il ruolo di Puck. E oggi mi dicono che anche Franco vuol fare altrettanto».
Branciaroli: «È vero. Voglio riafferrare l’eroe del Bardo per la coda. Un’idea che mi perseguita da quando interpreto Claudio, un usurpatore che però è anche il padre putativo del principe di Danimarca».
Lei Branciaroli ha sempre lavorato con il sostegno degli enti pubblici, lei Albertazzi, li ha diretti...
Branciaroli: «Certo, per continuare a proporre un repertorio di qualità con Gli Incamminati abbiamo dovuto cercare l’appoggio, la collaborazione, la coproduzione degli enti pubblici. Senza di loro per noi, che siamo un teatro d’arte a gestione privata, ogni anno c’è il rischio di scomparire».
Albertazzi: «L’operato degli enti pubblici è una vecchia storia. Lo dice uno che deve le nomine che ha avuto a meriti artistici e non politici».
Cosa dovrebbe fare il ministro della Cultura, secondo voi, per evitare strumentalizzazioni?
Branciaroli: «Venire a parlare con noi teatranti. Ma non per darci il contentino di tre soldi. Il piagnisteo cui si abbandonano certi colleghi è un segno di sconfitta. Le nomine devono uniformarsi all’arte, all’impegno. E deve scomparire, tra gli stabili, il sistema degli scambi - io dò una cosa a te perché tu offri l’altra metà della mela a me - che mortifica l’intelligenza e abbassa la qualità».
Albertazzi: «Concordo in pieno. Anche se mi rendo conto che, qualsiasi cosa facciamo, ci troviamo sempre a contatto con l’utopia».
Che cosa pensate del teatro d’avanguardia?
Branciaroli: «Chi ha detto che scrittori come Beckett, Brecht e Testori siano superati? Per me, Finale di partita, Vita di Galileo, Confiteor o Sdisorè sono eterni. La vera avanguardia la fanno tre mistici come loro. Beckett quando parla del vuoto provocato dall’assenza di Dio, Brecht quando ci parla della crisi della Chiesa, Testori quando ci ammonisce che bisogna pregare anche quando dubitiamo di Lui».
Albertazzi: «Barrault diceva che il teatro d’avanguardia è quello dove l’autore arriva in anticipo e il pubblico arriva in ritardo. Un’affermazione che oggi va rovesciata dato che è il pubblico ad arrivare in anticipo per applaudire certi avanguardisti. I quali, per stupire, dimenticano il pensiero, il messaggio che l’attore, al posto del Vate o dello Sciamano, ha il dovere di offrire al suo pubblico».
Mi sembra che ci stiamo imbarcando sul filone esoterico. Un discorso che vi divide. O sbaglio?
Branciaroli: «Ci separa drasticamente, a quanto ne so. Io, da credente, non ho bisogno di inseguire arcane presenze o di rintracciare ipotetici spiriti-guida. Lo Spirito che si è fatto carne ed ha abitato tra noi sarà lui a salvarci».
Albertazzi: «Dividerci, e perché? Ogni uomo cerca l’infinito. Io intrattengo da anni un rapporto speciale con l’essenza spirituale di un mistico arabo di nome Nudreddin. Che di recente, basandosi sui calendari maya, mi ha annunciato per il 2012 con l’avvento degli extraterrestri la fine della vita sulla terra».
Qual è, per voi, il senso della professione-attore?
Albertazzi: «Cercare nel corpo e nello spirito l’immagine della trascendenza. È questo il senso della vita».
Branciaroli: «Cercare ogni sera di trasmettere al pubblico il senso della bellezza, della verità, della continuità. Cos’altro possiamo fare?».
Chi sarà allora, tra voi, il Vate di domani?
Ma Albertazzi e Branciaroli si barricano nel silenzio.
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