Ennesimo allarme dell’agenzia di rating Moody’s. Dopo aver dormito saporitamente prima e durante la crisi, le premiate società incaricate di studiare l’affidabilità dei debitori stanno rialzando la cresta. Anche in questo caso va rilevato come gli «avvertimenti» siano di rara pochezza e si limitino a fotografare l’esistente senza una visione prospettica utile.
Cerchiamo di spiegarlo in modo da non farci cominciare di cattivo umore la settimana. Moody’s, nel suo studio anticipato ieri, fa un ragionamento in apparenza ineccepibile: ricorda che il debito pubblico europeo è cresciuto moltissimo durante la crisi (molti Stati hanno infatti dovuto «stampare» denaro a debito per disporre delle risorse necessarie per puntellare la produzione, le banche e la disoccupazione), questo debito dovrà pur venire sottoscritto da qualcuno, ma se in tanti si affretteranno a proporre sul mercato i loro titoli potrebbe darsi che il loro prezzo scenda per un banale principio di domanda-offerta; se scenderà il prezzo significherà che il tasso di interesse necessario per «convincere» un risparmiatore ad acquistarli sarà maggiore, per cui gli Stati dovranno spendere di più in interessi passivi e sarà quindi più difficile ritornare alla situazione di «salute» pre-crisi. Medaglietta all'ovvio dunque: più debito statale, più interessi da pagare, meno denaro disponibile nel bilancio dei Paesi europei.
Peccato però che questa aspettativa sia già tranquillamente e pienamente scontata dai prezzi dei titoli di Stato. Non esiste infatti un interesse unico per i titoli di debito: è stato dato ampio risalto ai rendimenti zero dei Bot (che rappresentano il debito statale a breve scadenza) ma basta guardare le obbligazioni a più lunga durata come i Btp a tasso fisso per trovare rendimenti al 4%. Perché questa differenza tra due titoli emessi entrambi dallo stesso Stato? Semplice: il mercato spesso prende abbagli ma in genere non è stupido, gli operatori hanno fatto da tempo lo stesso ragionamento che Moody’s ieri ci ha proposto come una primizia e, aspettandosi un futuro rialzo dei tassi di interesse, pretendono già oggi una remunerazione molto più alta per un impiego di denaro a lungo termine, al contrario della liquidità veloce dei Bot che può permettersi di offrire rendimenti nulli. L’agenzia di rating ha quindi in pratica guardato fuori dalla finestra e, dopo averci pensato su, ci ha detto che sta piovendo. Nessuna previsione sconvolgente.
Ma alla fine, dobbiamo quindi preoccuparci? In fondo mille miliardi di debito da rifinanziare per l’anno prossimo è una cifra difficile persino da immaginare. Il fatto è che per quanto alta possa essere la cifra, il mercato mondiale è fatto di vasi comunicanti: il punto critico si ha quando la paura congela i movimenti di denaro, ma una volta superato l’apice della crisi le masse di liquidità globali che si possono mettere in movimento sono enormi. Se l’economia ripartirà i tassi si rialzeranno (come già ora registrato dai rendimenti dei titoli a lunga scadenza) ma gli Stati saranno più che compensati dagli aumenti dei prodotti interni lordi.
Se invece ci dovesse malauguratamente essere una lunga stagnazione, sul modello di quanto accaduto in passato in Giappone, i tassi si manterranno vicini allo zero e non rappresenteranno il problema principale. È però vero che un mondo più indebitato sarà senza dubbio più fragile e con molte cartucce in meno da sparare qualora si dovesse ripresentare in tempi brevi un’altra situazione critica.
In ogni caso anche in questo scenario l’Italia sarà più preparata di altri ad affrontare la situazione: il nostro debito è, infatti, cresciuto durante la crisi in proporzione molto meno di quello delle altre economie occidentali, quindi per il nostro Paese non si può certo parlare di situazione senza precedenti, anzi, potremmo tranquillamente spiegare agli altri come convivere (male) con un debito strutturale. Per adesso ce la siamo cavata, impareranno anche i cugini anglosassoni.
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