Allen e Louis: la guerra dei Ginsberg

Dall’epistolario fra i due emergono le due anime dell’America

Quando, nel 1957, iniziò il suo vagabondaggio in Italia, Allen Ginsberg non era ancora un poeta famoso. Alle spalle, una carriera da aspirante avvocato subito interrotta, amicizie fra gli sbandati newyorkesi e una pratica consolidata di droghe e stupefacenti. L’approccio con la letteratura era già avvenuto, naturalmente con modalità congrue all’eccentricità del giovane, che nei suoi narcotici deliri confessava di avere visioni mistiche. I primi versi furono la conseguenza di questa eccitazione, via via esaltata da scabrose simbologie e dal desiderio di rompere i ponti con le forme della tradizione poetica e con la morale dell’America maccartista.
Il primo lettore di Ginsberg fu il padre Louis, professore di liceo, poeta anch’egli, ma di scarso talento e ostile ai rivoluzionari sperimentalismi del figlio. Non ne capiva né l’arte né la scelta della marginalità e della contestazione, condivisa con altri outsider ribelli alle convenzioni borghesi. I loro punti di vista divergevano su tutto: la poesia, la politica, l’esistenza pubblica e privata. Eppure, dalle lettere che si scrivevano, si intuisce l’affetto, perfino la stima, anche oltre l’ostacolo dell’incomprensione.
La corrispondenza tra i due Ginsberg, ora edita in Italia da Archinto (Affari di famiglia. Lettere scelte 1957-1965, pagg. 305, euro 22, a cura di Michael Schumacher, traduzione di Marina Premoli), inizia qualche mese dopo l’uscita di Urlo, il poema edito dalla City Lights di Ferlinghetti, in cui il giovane artista descriveva, nello stato di allucinazione provocatogli dal pelote, gli incontri con musicisti, scandalosi borderline, drogati e pazienti psichiatrici. Il linguaggio e il contenuto, esplicitamente omosessuale, catturarono l’interesse della stampa, che giudicò l’opera il manifesto dei giovani poeti di lì a poco eletti portavoce della cosiddetta Beat Generation. Il processo per oscenità che si aprì subito dopo fu per il libro, l’autore e il movimento la migliore pubblicità, che la pubblicazione di On the road di Kerouac e i volumi di Corso e Burroughs sfruttarono appieno.
Il successo di Allen fu accolto con soddisfazione dal padre, che tuttavia rimase sulle sue posizioni, sia letterarie sia ideologiche. Da Parigi, scelta come quartier generale dei suoi viaggi, il figlio gli scriveva del «declino americano», incensando le imprese dello Sputnik e del comunismo, capace di «migliorare le condizioni materiali di vita» dei sovietici e dei cinesi. Errori ce n’erano - «i processi & l’Ungheria ecc.» - ma in fondo si trattava di mali necessari...
Per Ginsberg senior queste erano utopie condite dalla malafede. Lo infastidivano non solo i preconcetti che scorgeva dietro alla critica globale agli Stati Uniti di Allen e compagni, ma anche il loro estremistico rifiuto del vivere borghese. Constatava nel rivoluzionarismo ad oltranza dei beat l’ottusa intransigenza di chi pretende sempre di essere dalla parte del giusto, schierato a battaglia contro i presunti mali del mondo: «Tutto senza eccezione, secondo le tue idee - così in una lettera del marzo 1958 - è sbagliato, tutto in rovina, tutto immorale, tutto da guerrafondai, eccetto voi, la Beat Generation. Nessuno vuole “bellezza, poesia, libertà” salvo voi. Tutti i mariti e le mogli fornicano in modo egoistico; tutto votato alla rovina. Tutto sbagliato eccetto la vostra Beat Generation».
«C’è del miele nel mondo oltre all’assenzio», scriveva Louis ad Allen. Ma quest’ultimo era convinto che le posizioni del padre, socialista e sostenitore di Kennedy, fossero una pessima miscela di nazionalismo da guerra fredda e ingenuo fervore patriottico. E, mentre il suo tour continuava tra Europa, Asia e America Latina, alla ricerca dei più insoliti allucinogeni naturali, abbracciò la causa della rivoluzione cubana, che, secondo le sue teorie, l’amministrazione statunitense avrebbe dovuto favorire, se non altro per impedire a Castro di finire in braccio ai sovietici. Allen non cambiò idea neanche quando nel 1965, dopo esser giunto all’Avana per un convegno letterario, fu arrestato «per aver parlato troppo di marijuana & sesso & pena di morte». Né miglior trattamento ricevette un paio di mesi dopo in Cecoslovacchia, dove fu sorvegliato e pedinato prima di essere fermato ed espulso dal Paese.
Nell’incipiente guerra in Vietnam il poeta vide poi un vero e proprio conflitto civile, da cui sperava potesse uscire una vittoria comunista, alla faccia dei tanti illusi «Louis Ginsberg» che si ritrovavano dalle loro cattedre progressiste con le «mani sporche di sangue», correi dell’imperialismo americano allo stesso modo dei tedeschi con Hitler.

Un ultimo atto d’accusa al padre, con cui si chiude questo tormentato epistolario, che testimonia, oltre alla formazione di Ginsberg, anche i contrasti generazionali che accesero il braciere ideologico dell’America del secondo dopoguerra. Documentando al contempo l’incidenza (enorme) che il protagonista beatnik ebbe nel costume e nell’immaginario collettivo dei giovani a cavallo del Sessantotto. Ma anche le sue qualità (nulle) di analista politico.

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