Milano - Romano Prodi al Senato ha promesso «tempi rapidi» per l'apertura dei cantieri dell'alta velocità ferroviaria: non solo per la Torino-Lione ma anche per le tratte interne. Precisazione opportuna, perché appena un mese fa, con il secondo decreto Bersani sulle liberalizzazioni, il governo aveva fatto l'esatto opposto. Aveva stracciato le concessioni già firmate per i lavori alle linee Tav Milano-Genova e Milano-Padova. Opere già approvate dal Cipe, progettate e pronte per l'apertura dei cantieri. E sulle quali ora incombe un futuro molto incerto, che - guarda caso - penalizzerà soprattutto l'«asse lombardo-veneto» che non vota a sinistra.
Le parole di Prodi non hanno tranquillizzato le imprese cui erano stati assegnati i lavori (ci sono tutte le maggiori aziende costruttrici italiane), che hanno annunciato ricorsi e richieste di risarcimenti milionari. Al loro fianco è scesa ieri anche Confindustria. Il presidente Luca di Montezemolo ha usato parole inequivocabili: «Sugli appalti per la Tav, quando si dice che li cancelliamo o non li cancelliamo, bisogna stare molto attenti. Altrimenti l'Italia diventa come un Paese come il Sudamerica di una volta: senza regole. I diritti di veto ci portano fuori da qualunque tempistica».
Il clamore per la sorte della Torino-Lione ha tolto l'attenzione dal destino delle linee interne della Tav. Al contrario della tratta italo-francese, i lavori sarebbero cominciati da tempo se i finanziamenti non fossero in ritardo. Ora il decreto Bersani ha dato un ulteriore colpo di freno. L'articolo 12 ha revocato le concessioni perché i lavori non sono stati affidati con una gara d'appalto europea. Si dovrà quindi procedere con questi bandi, con ulteriori ritardi.
Ma il governo ha garantito che non si perderà altro tempo. Promessa paradossale, anche perché sullo sfondo si profila un gigantesco contenzioso giudiziario. I tre «general contractor», cioè i consorzi (guidati da Impregilo, Saipem e Astaldi) cui sono stati revocati gli affidamenti per realizzare i collegamenti Milano-Genova, Milano-Verona e Verona-Padova, ricorreranno alla Corte costituzionale e alla Corte europea di giustizia. L'Eni chiederà un maxi-indennizzo di 324 milioni di euro più interessi per i lavori persi con la revoca della Milano-Verona.
Problemi che però non turbano il ministro delle Infrastrutture: «È naturale e normale che quando due contraenti non si trovano d'accordo ci si rivolga a un giudice terzo. Ma non è detto che poi, una volta attivato, il giudice dia ragione a chi lo ha sollecitato - ha detto ieri Antonio Di Pietro -. Se quella delle società è una minaccia per indurci a tornare sui nostri passi, certamente non ci facciamo intimorire».
Il motivo delle cancellazioni è essenzialmente economico: «Risparmieremo almeno il 20 per cento sui costi», ha calcolato qualche giorno fa il viceministro veneto Cesare De Piccoli. Una somma stimata tra 3,5 e 3,7 miliardi di euro. Ma la giustificazione non regge, secondo i legali delle imprese costruttrici. «I contratti sottoscritti sono stati attentamente valutati dalle società Tav e Italferr - dice una nota -. Non è poi credibile che a seguito delle revoche i tempi di realizzazione saranno più brevi. Le opere finora non sono state avviate solo per mancanza di finanziamenti, non certo per ritardi dei “general contractor”. Senza parlare del fatto che le progettazioni delle opere revocate appartengono ai tre consorzi e non è possibile espletare le gare senza i progetti».
Vittorio Di Paola, vicepresidente esecutivo di Astaldi, sottolinea anche «il danno arrecato alla credibilità e affidabilità del Paese sui mercati internazionali».
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