Amedeo, il Lawrence d’Arabia fedele al re e alla Repubblica

Roma«Chi sono io? L’uomo più fortunato che abbia mai incontrato...» ridacchia compiaciuto. Il volto è scavato e può apparire triste, ma gli occhi di Amedeo Guillet brillano di gusto. Alle soglie del traguardo dei 100 anni - è nato il 7 febbraio del 1909 - ha lasciato la sua villa nei pressi di Dublino per calare a Roma dove le nostre forze armate hanno chiesto l’onore di celebrare il compleanno dell’uomo più decorato d’Italia: 5 medaglie d’argento al valor militare, una di bronzo, 5 croci di guerra più una serie d’altri riconoscimenti per un totale vicino alla quarantina.
Racconta pianamente di non avere particolari segreti per la sua longevità: «Un po’ di yoga, il cui principio fondamentale è quello di avere moderazione in tutto». Del resto fino a pochi anni fa fumava pipa e sigaro, né si negava un whisky prima di cena. «Ho smesso perché non mi interessava più, non certo perché me l’abbiano ordinato», tiene a precisare. E qui cala il suo asso: «Credo che una persona possa esser felice se riesce a fare tutto di testa sua, senza dover inseguire ordini e consigli e senza la necessità di giustificare le sue scelte. Io ho sempre marciato dritto sulla mia strada. Ed evidentemente, come le ho detto, sono stato fortunato».
Barone d’origine savoiarda («Fides ed fidelitas» il motto di famiglia che sovrasta tre ermellini), a lungo militare con campagne in Eritrea, Libia, Spagna, Etiopia fino a raggiungere il grado di generale, poi 007 nella guerra di liberazione in Italia a fianco degli ex nemici inglesi e infine diplomatico di carriera col grado di ambasciatore in Giordania, Marocco e India. Una vita tutta di corsa. Cento anni dalle mille sfaccettature. Un secolo di avventure «ma anche di sofferenze», puntualizza. L’aspetto che ti offre è quello di un Eduardo: malinconico dagli occhi buoni. Ma a sentire i suoi racconti ti sembra di aver incrociato il mitico Corto Maltese. Fu lui, su richiesta di Italo Balbo, a organizzare la coreografia in cui a Mussolini venne consegnata in Libia la spada dell’Islam. Ancora lui a guidare uno squadrone marocchino nella guerra di Spagna all’assalto di Santander. Quando il duca d’Aosta si dovette arrendere all’Amba Alagi, Guillet riunì un gruppo di italiani ed eritrei per la guerriglia ai britannici. Li tenne in scacco per mesi fino a quando dovette cercar scampo nello Yemen, salvo esser buttato tra gli squali del Mar Rosso da un equipaggio arabo. A nuoto riuscì a tornare a riva e a riprendere la traversata dopo aver messo da parte un po’ di soldi vendendo acqua in Eritrea. Torna in Italia proprio alla vigilia dell’8 settembre, e («monarchico come ero e come resto») attraversa da solo la linea Gustav per raggiungere Vittorio Emanuele III. «Un soldato non può venir meno al suo dovere. E io avevo giurato in nome della patria e del re».
Sarà anche per via di quel giuramento che - dopo aver indossato i panni dello 007 nella guerra di liberazione - decide di dimettersi dall’esercito dopo il referendum del ’46. «Re Umberto mi disse che sbagliavo, che era il torto più grosso che potesse essergli fatto, che non dovevo lasciare per proteggere ancora quella patria che la sua famiglia aveva creato - racconta - ma non potevo indossare altre mostrine, pur rispettando la Repubblica». Scelse la diplomazia perché «era un lavoro dignitoso che poteva far bene al Paese»: gli proposero un immediato incarico grazie alla sua conoscenza dell’arabo, ma Guillet volle fare regolare concorso: «Sono abituato a entrare dalla porta e non certo dalle finestre!» spiegò. Naturalmente lo vinse e dal ’50 al ’75 servì la Farnesina ricevendo anche in questo nuovo ruolo onorificenze e riconoscimenti.
Di gioie dice di averne avute tante, tra cui la stima dei britannici per le sue azioni di guerrigliero. Di autentici amori, solo due: la moglie Bice, «mia cugina di primo grado senza la quale non avrei fatto tutto quel che ho fatto» e i cavalli. Ancora la scorsa estate è riuscito a montare il suo «Tim» che alleva assieme a un altro paio di purosangue nei pressi di Dublino. Proprio la passione per i quadrupedi lo portò nell’isola quando decise di pensionarsi. «Mi fecero altre offerte ma ormai trovavo noiosa la vita pubblica, anche perché il tutto si riduceva a dover dare notizie di altri». Il che non significa che non segua le vicende anche politiche dell’Italia d’oggi: «Sbagliato non farlo, un errore estraniarsi», ammonisce. Certo, non tutto quello che vede gli piace. Ma dice di aver avvertito uno «spirito nuovo» nei giovani, specie tra quei militari dei suoi lancieri di Montebello che in questo 2009 compiono 150 anni ed operano tra la Bosnia e il Libano, l’Afghanistan e il Kosovo. «Spero di rivederla ancora e più volte - s’accomiata - magari a Dublino per parlare di cavalli e non di fatti di cui non c’è molto di cui vantarsi».


Le forze armate lo celebrano con un appuntamento il cui titolo dice tutto: «Amedeo Guillet, cento anni da indomito... e oltre». Lui si schermisce, ma un’ultima cosa ci tiene a farla presente. «Vede quella bandiera italiana? Sì, quella con lo stemma Savoia. È con quella che, quando accadrà, voglio esser sepolto».

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