Cè unAmerica un po' cialtrona laggiù nel Midwest, cè unAmerica che profuma di hamburger e hot dog e si scalda per il baseball. Cè unAmerica tiepida anche per Obama, unAmerica che impazzisce per Phelps, vive per la musica e si commuove allanniversario di Elvis. Cè unAmerica, più che altro un mondo, che si ferma attonito davanti alla stella, stile mosaico, sugli Strawberry fields. Che non sono più Midwest, ma New York city, Upper West side, là, dove vive Madonna e abitava John Lennon, prima che quel folle di Mark David Chapman gli sparasse quattro colpi a bruciapelo nella notte. E gli dicesse: «Hey, mister Lennon, sa che sta entrando nella storia?» Oggi a due passi dal Dakota building, negli Strawberry fields, cè gente che canta e suona davanti a quella parola, «Imagine», semicoperta da rose e girasoli, lasciata lì a evocare ciò per cui lo «scarafaggio» spese la vita: il pacifismo. John Winston il ribelle, John Winston leccentrico, John Winston lartista, John Winston andata e ritorno dalleroina, non aveva bisogno di quella frase di Chapman e nemmeno di quella maledetta serata. Ma forse proprio quell8 dicembre 1980 lAmerica capì che se ne era andato un genio. E da allora ci ripensa tutti i giorni.
Oggi lAmerica su quel genio e su tanti altri piange ancora. Ferma e immobile come se fosse ieri. Tre anni prima e a migliaia di miglia da Central park era accaduto lo stesso. Elvis the «Pelvis» se ne andò senza un Chapman, morì tra le mura amiche di Graceland, ucciso da un altro sottile nemico che cammina silenzioso e ti arriva alle spalle quando non te ne accorgi. Ti perseguita, ti mangia morso dopo morso, ti scarnifica, lasciandoti senza vita con la morte tra le mani, senza un perché. Perché la depressione non ha mai un perché. Era il '77, il 16 agosto. Sono passati più di trentanni e Presley sembra ancora lì, nellovest del Tennessee, a chiamare i fan, i figli dei fan, i nipoti dei fan. Si canta a tutto decibel la sera del 16 fuori da Graceland, a quattro passi da Memphis, quattro passi nel deserto. Non cè nulla intorno a Graceland, ma a Ferragosto sale londa di piena, un mare di cloni formato terzo millennio: voci vellutate, brillantina a pioggia, lustrini, chitarra e tanta voglia di cantare. Il vento spazza quel deserto dove brucia il profumo di hot dog e laria è intrisa di Bud alla spina. Graceland è meta fissa tutto lanno ma ad agosto si trasforma, è un tempio dove abitano musica e nostalgia. Non è sola, lAmerica, a Graceland. Cè un mondo che laccompagna in quella cerimonia profana che incontra il sacro fra le note del rock. Cè il mondo. Perché Elvis è un bene senza confini, non di Tupelo, borgata del povero Mississippi dove nacque, non di Graceland poco più a nord, dove chiuse gli occhi.
Storie di re bianchi del rock, storie di re neri. Storia di unAmerica che balla sulle note di B. B. King e, a pochi metri, ricorda il sacrificio di Martin Luther King sullaltare del razzismo. Epopea di un leader nero che in una metropoli nera soggiornava nei bassifondi neri di un hotel senza pretese, oggi museo dei dritti umani. Morì al balcone, ucciso da una revolverata bianca. Cè unAmerica che prega davvero là nel Midwest, dove Dio è un canto gospel e i neri partirono alla riscossa. Là dove un giorno cerano i campi di cotone e di canna da zucchero, dove cerano i padroni e gli schiavi, dove lAmerica era spaccata in due e forse solo oggi lo è un po' meno. Là vive un altro pastore battista, anche lui nero: il reverendo Al Green, un mito del blues. Dice messa a ritmo gospel: canta, balla e fa cantare. La funzione è uno show di due ore: tra donne che si strappano i capelli per finta e per finta giocano a essere allegre, un don che si entusiasma per la visita dei turisti e turisti che strabuzzano occhi e orecchie, escono un po' diversi da come erano entrati perché la loro devozione non è più la stessa.
Cè unAmerica che non conosce il tempo, laggiù dove il Midwest diventa magico Sud: è la New Orleans dei beignet e del jazz. È la Nouvelle Orleans che conosce e ama larte, il profumo dei mobili antichi, di un panama svagato sotto il quale si nasconde un uomo trasognato che ascolta una cornetta suonare sulle rive del grande padre Mississippi. È la patria di Louis Armstrong, ma Satchmo non cè più. Sopravvive in un parco che è diventato terra di nessuno, dove è impossibile avventurarsi senza lasciarci il portafogli. Il faccione del re del jazz troneggia allingresso del museo, la statua di Fats Domino occhieggia dietro un angolo di Bourbon street, dove la luna ha sedotto anche Sting e dove non è proibito sognare.
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