Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un brano tratto da Giovanni Ansaldo, Gli anarchici della Belle Époque (Le Lettere, pagg. 110, euro 9,50), in libreria da domani. Il volume, curato da Francesco Perfetti, raccoglie una serie di articoli, scritti tra il 1953 e il 1967 su «Il Borghese» e «Il Mattino», del grande giornalista genovese Giovanni Ansaldo (1895-1969), tutti sul tema dell’anarchia. Negli anarchici e nelle loro idee Ansaldo, considerato un conservatore e uomo d’ordine, vedeva alcuni elementi in qualche misura essenziali alla costruzione e alla storia d’Italia: «un’espressione delle forze vitali del Paese».
di Giovanni Ansaldo
Il movimento anarchico italiano ebbe, naturalmente, una certa affinità generica con tutti gli altri. Anch’esso fu, in parte, riflesso, proiezione, lusso della prosperità borghese. Ma in parte molto ridotta, perché la prosperità borghese era, da noi, molto modesta. Il solo anarchico italiano che arieggi Ravachol è il milanese Vittorio Pini.
In realtà, i nostri anarchici erano di un altro legno; un legno più nobile. Essi non ce l’avevano con i proprietari di case, ce l’avevano con i grandi della terra. Non tiravano di sorpresa il collo ai reddituari o ai contadini danarosi; miravano ad abbattere il re in mezzo agli applausi della folla, in mezzo ai suoi soldati, in mezzo alla testimonianza della sua potenza. Nati tutti in quel giro di anni, in cui la dinastia Savoia, messasi alla testa della rivoluzione risorgimentale, abbatteva troni legittimi ed entrava in Roma dalla breccia di Porta Pia, essi avevano tratto da questa terribile lezione l’insegnamento ultimo; e, contro il re dello Stato liberale e laico, erano vindici della vecchia Italia. Cresciuti tra le miserie dello Stato nuovo, determinate dalle nuove ambizioni di grandezza, esprimevano, da poveri ignoranti, l’inquietudine delle plebi, cui erano venuti meno il tradizionale assetto sociale e la fede antica, senza che niente fosse dato loro in cambio, all’infuori dei tre squilli regolamentari di tromba, ordinati dal commissario di Ps, prima che i picchetti armati facessero fuoco. Passati attraverso la trafila dell’emigrazione, avevano sentito, in terra straniera, più vivo il rovello che l’Italia fosse così misera, così spregiata; avevano aderito ai gruppi anarchici di America e di Francia, anche per farsi valere come italiani. Erano legittimisti credendo di essere nemici di tutti i re, reazionari credendo di accelerare la corsa verso l’avvenire, nazionalisti credendo di avere rinnegato la patria; puri strumenti di una logica ideale più forte di loro, come accade ai poveri uomini che hanno l’impulso ad agire più sviluppato della capacità raziocinativa. Ma, tutto sommato, a vederli oggi, con la prospettiva consentitaci da mezzo secolo e da tanti eventi, reggono.
La passione che li sospinse all’attentato, ha pure, in se stessa, qualcosa che li salva dall’ignominia, che conferisce anzi a essi un alone di cupa grandezza. Sono come i sonnambuli solenni e feroci della nostra storia, che rilevano di un colpo le carenze e le debolezze di quel grande sogno di una minoranza che fu il Risorgimento.
In ogni anarchico italiano c’è, piccolo piccolo, il germe del nazionalista; come sarà poi chiarito dagli avvenimenti e dalle metamorfosi personali del secolo nuovo. In Italia, infine, la ribellione anarchica attinse vigore dall’antica propensione, inveterata nel nostro costume, di farsi giustizia da sé, e dal prestigio secolare che da noi ha sempre goduto il tirannicidio, esaltato qui, come in nessun altro Paese di Europa, da teologi, moralisti e poeti.
Tutto ciò spiega lo stile proprio dell’anarchismo nostrano nell’azione sua; stile diversissimo da quello francese o spagnolo. È relativamente rado da noi (sempre nel periodo 1890-1900) l’attentato dinamitardo mirante alla strage per la strage: di questi, il solo esempio purtroppo riuscito (tre morti) si ebbe nella città più cattivella d’Italia, voglio dire nella gentile Firenze, ma risale a un periodo anteriore, al 18 novembre 1878, il giorno dopo l’attentato di Passanante.
Anziché alla strage per la strage, l’ambizione dell’anarchico italiano si appunta al castigo inflitto dinanzi a tutti, alla luce del sole, all’uomo potente; si appunta, cioè, al re, o almeno, come surrogato, ai capi del governo. È un anarchismo che mira, essenzialmente, al regicidio, come forma moderna del tirannicidio. È al petto dei sovrani che l’anarchico italiano rivolge i suoi torbidi sogni di vendetta sociale e di gloria personale. Quindi, l’anarchico italiano è quello che, quando colpisce, colpisce per decisione personalissima, imponderabile, folgorante, senza bisogno dell’assistenza di compagni. L’attentato anarchico italiano è una specie di resa dei conti, da uomo a uomo.
Le abitudini secolari si fanno così sentire nell’anarchico italiano. Questi non si serve quasi mai della bomba; la sua arma prediletta, quella in cui ripone veramente speranza e fiducia, è l’arma classica del tirannicida risorgimentale: il pugnale. La rivoltella con cui Bresci mise fine alla vita di Umberto, a Monza, esce dalla tradizione; è il risultato, probabilmente, della sua esperienza americana e dei discorsi uditi a Patterson.
L’anarchico italiano tiene tanto al suo pugnale che qualche volta se lo forgia lui, se lo tempera e se lo affila lui, in segreto; come, nel 1896, farà Acciarito. Il lampo del pugnale pare all’anarchico italiano dieci e cento volte più bello di tutte le marmites explosives, è col pugnale in mano che egli si vagheggia e che va incontro al suo destino.
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