Anche il Centro si tinge di verde La Lega a segno in 64 province

Sarà come dice Francesco Speroni, che «dentro siamo ancora tutti attacchini» o sarà come dice Umberto Bossi, che «gli avversari ci hanno sottovalutati, ed è stato meglio così». Più di tante analisi però, poté il tassista di Roma. Che sotto all’Altare della Patria, mica davanti al Pasquino, scorto il Senatùr gli ha gridato dal finestrino: «Umberto, quando ti prendi Roma?». Lui dice presto, ché «sufia fort el vent del Nord», come cantava la Bovisa street band a Radio Padania alle 6 del mattino del 30 marzo, il giorno dopo la conta dei voti. «Anche le Regioni rosse del Centro diventeranno verdi, tutti si scopriranno federalisti e l’ondata verde può spingersi fino alle Regioni del Sud», ha commentato il leader della Lega il giorno dopo, era il primo aprile e non era uno scherzo.
Perché bandiera verde trionfa già, compagne e compagni, dal 22 per cento di Piacenza al 17,8 di Reggio Emilia, dall’8,3 di Arezzo al 9,8 di Prato, la classe operaia, così dicono gli esperti, ha trovato il suo nuovo Pci. E se pure le élite tradizionalmente ostili hanno messo da parte la diffidenza, Torino docet, significa che ormai tutto vale.
Del resto, la Lega longobarda che schierava le baionette lungo il Po per respingere l’assalto sudista al Nord, pare che invece ci abbia preso gusto a sconfinare in terra «nemica». Così, adesso c’è il parlamentare emiliano Angelo Alessandri che annuncia: «Ci prenderemo Bologna», e il Carroccio fin dove si è presentato ha imbarcato consensi. La nuova linea del Piave è un «cuneo verso Roma», per citare la Padania, a segnarla sono le ultime province più a sud: il 5 per cento di Grosseto, il 3,4 di Terni, il 4,6 di Perugia, il 4,3 di Ascoli Piceno. Mezza Italia.
Percentuali impensabili in quelle zone fino a un anno fa, che si inseriscono nel quadro di un partito ormai nazionale o quasi: 64 le province in cui, come si dice in politichese, la Lega è «presente sul territorio» e si è presentata alle elezioni; 370 i «sindaci del Guerriero», più nove se si contano quelli che si sono presentati con liste civiche «di area», più due al ballottaggio domenica prossima. E diconsi 13 presidenti di Provincia: su 109 fa il 12 per cento del totale.
Uno «tsunami», ha commentato a caldo Bossi la vittoria delle Regionali. Secondo l’Istituto Cattaneo, che ha confrontato i risultati con quelli del 2005, la Lega nelle 13 Regioni chiamate alle urne in questa tornata è passata da quasi un milione 380mila voti a 2 milioni 750mila: un milione 370mila voti in più. I segni «più» della crescita rendono l’idea: più 134 per cento in Veneto, più 61 in Lombardia, più 83 in Piemonte, più 165 in Emilia. E poi voti triplicati in Toscana, dove il Carroccio conquista tre consiglieri regionali, uno dei quali con sangue brasiliano. Consensi sestuplicati nelle Marche, dove nell’assemblea entrano due eletti, e più che raddoppiati in Liguria.
Numeri che fanno paura perché, per dirla come l’ha detta il Secolo d’Italia: «Stiamo molto attenti, sono migliori di come sembrano», là dove la Lega «ha vinto riconvertendosi in una forza mite». Riferimento alle riforme, là dove dopo tanto urlare alla secessione sono i ministri e i parlamentari leghisti quelli più attenti al dialogo con l’opposizione per «portare a casa il federalismo». E riferimento anche alla Chiesa, là dove il partito di quel mangiapreti del Bossi adesso viene indicato dalle gerarchie vaticane come un modello da seguire, e là dove i paladini anti abortisti schierati contro la Ru486 si chiamano Luca Zaia e Roberto Cota. Chiaro che vista da qui Roma è a un passo.
Così adesso càpita di accendere Radio Radicale e sentire un Senatùr d’annata, come quello che nel 1996 comiziava alla Lega Lombarda attaccando «la canaglia fascista e mafiosa romana», con contorno di Vaticano colluso e di «politici tutti nostri amici a pranzo e a cena, ma mai alle 6 del mattino quando c’è da andare a lavorare». «Abbiamo trasmesso questo intervento per ricordarvi come parlava Bossi, soprattutto del Vaticano», ha detto ieri mattina lo speaker radicale.

Ma non vale più, avverte Matteo Salvini, che segnala come il fenomeno sia inverso a quello che capitava con Forza Italia, che nel 1994 vinse le elezioni ma non si trovava uno che l’avesse votata, perché nessuno aveva il coraggio di ammetterlo. «In questi giorni sono tutti leghisti - dice l’europarlamentare meneghino - Vado a prendere il caffè e ricevo complimenti dagli sconosciuti, sembra che ci abbiano votato tutti».

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