Politica

Antonio e Clemente, la coppia che non «c’azzecca»

Di Pietro: «Hai un partito di voltagabbana»

Gianni Pennacchi

da Roma

Quando gli dissero che la Giustizia era andata a Clemente Mastella, sgranò gli occhi e spalancò la bocca. «Come? Proprio a lui!», forse pensando che avevano messo una volpe a guardia del pollaio, certamente frustrato perché a quel ministero ambiva fortemente egli stesso mentre glielo avevano negato perché non s’affida un pollaio a un gallo. Del resto, quando Antonio Di Pietro venne incaricato a sorpresa dei Lavori pubblici, nel primo governo Prodi, era l’altro che ironizzava: «Visto l’angelo della giustizia, il fustigatore della politica? È approdato al potere».
Di Pietro e Mastella, da quanto tempo va avanti la loro guerra? Da sempre in verità, cioè dagli anni di Mani pulite poiché nessun democristiano vedeva con simpatia il piemme giustiziere e questi scorgeva in ogni democristiano il germe della corruzione, al meglio dell’innocenza gli sospettava la complicità, in base al noto principio del non poteva non sapere. L’evidenza e la personalizzazione dello scontro però, si sono materializzate allorché Di Pietro, appesa la toga al chiodo, è sceso anch’egli in politica. All’inizio era un graffiarsi quasi istintivo, concorrenza velenosa tra due che occupano il medesimo spazio di centro. Anzi, di centrodestra. E quando l’ex magistrato accettò di correre nel Mugello che Massimo D’Alema gli offriva su di un piatto d’argento, l’allora presidente del Ccd gli intonò signorilmente il de profundis: «Paradossalmente, io sono contento che Di Pietro si candidi a senatore. Non eravamo noi a ritenerlo il candidato presidente della Repubblica? Meglio candidato senatore che presidente. Candidandosi senatore perde lo smalto, quindi non si candiderà presidente».
Ora che son tornati al governo insieme però, i battibecchi e le punture di spillo son diventati ceffoni e sciabolate. Altro che separati in casa, c’è più dialogo tra rifondaroli e cossuttiani che non si parlano dal ’98. Ancora ieri, in Consiglio dei ministri, Di Pietro è tornato a minacciare barricate e appoggio esterno contro l’indulto patrocinato da Mastella, nonostante lo stesso Prodi gli spiegasse che il provvedimento «non dipende dal governo»: con la maggioranza qualificata che occorre è solo frutto di larghe intese parlamentari. Di Pietro non s’arrendeva e puntava il dito contro Mastella, accusandolo di trescare coi postdemocristiani dell’altro fronte, e il guardasigilli gli ha gridato: «Parli tu, che hai i voltagabbana in casa!». Si riferiva ai voti spesso disinvolti del suo senatore De Gregorio. La sera prima aveva provveduto Mauro Fabris, capogruppo dell’Udeur alla Camera, a fustigare il ministro delle Infrastrutture che aveva appena rinnovato il consiglio di amministrazione dell’Anas, stigmatizzando che mentre Di Pietro «minaccia di uscire dal governo sull’indulto, procede in proprio nelle nomine senza consultare gli alleati». Centrando il bersaglio, perché sui cinque del nuovo cda, ben due risultano dipietristi.
Se l’avversione di Tonino per Clemente s’è ingigantita vedendolo ministro della Giustizia - è una fissa ormai: se quello incontra gli avvocati al Palazzaccio lui ne invita il presidente a cena, se quello propone un disegno di legge per stemperare la riforma Castelli l’altro grida che è inutile e pretende il decreto, e così via - quella di Clemente per Tonino s’era cementata alle elezioni, quando Italia dei valori ha arruolato, oltre a Leoluca Orlando e Franca Rame, anche Pino Pisicchio e altri del Campanile esclusi dalle liste come Tancredi Cimino, tesoriere del partito. «Da allora per me è l’Italia dei portavalori», sibila Fabris. Mastella in pubblico si tiene, con la mano sul cuore assicura: «Io ho sempre reagito, vai a vedere se una sola volta l’ho attaccato per primo». Però una volta, a quattr’occhi, gli ha fatto: «Ah, io sarei il mercante. E tu che vai raccattando tutti i miei resti?»
Tant’è che litigano sempre, lo han fatto anche incontrandosi alla festa degli italoamericani a Washington, nell’ottobre del 2000. C’era pure il presidente Clinton, ma Di Pietro e Mastella han preso a polemizzare sulla soluzione più giusta per il voto degli italiani all’estero. Invertendo spesso i ruoli, come per l’appoggio esterno: ora lo minaccia Di Pietro, alla formazione del governo lo minacciava Mastella. Che si somiglino?, han chiesto a Di Pietro.

«Ci assomigliamo, sì», ha risposto, «ma lui è molto più scafato di me».

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