(...) certe - errate - semplificazioni secondo cui la città dell'Ottocento è rock mentre quella contemporanea sarebbe lenta.
Non abbiamo l'esperienza per scrivere l'apologia degli Architetti, e sinceramente sentiamo di affermare che forse non ci interessa neanche, perché se le colpe dei padri ci sono state - e ci sono state - queste non possono e non devono ricadere sui figli.
Parleremo quindi con la debolezza di un pensiero di chi si prepara per anni ad affrontare un mestiere difficile sotto molti aspetti primo fra tutti quello di progettare «cose» in qualche modo pubbliche anche quando sono private.
Pensavamo non fosse necessario ricordare ancora che l'architetto non è quel signore vestito col farfallino che si crede un artista; e non è neanche - ricordando una pubblicità di poco tempo fa - quello che guida disegnando col pennarello nero nuvole sul parabrezza.
La progettazione di un edificio non è, salvo eccezioni, il gesto di un demiurgo. È il risultato di mediazioni e di innumerevoli competenze, in particolare è conseguenza di una visione culturale e soprattutto politica in cui il ruolo dell'architetto è propositivo e analitico ma rarissimamente decisionale. Lo stesso progettista Piero Gambacciani ammette che la fretta di costruire per non perdere i finanziamenti fu il motore di tutto. Sono questi compromessi che producono situazioni problematiche.
La nostra formazione è eterogenea e continua, mi spiego: chi studia per diventare un (buon) architetto sa che affronterà una scelta di vita a cui consacrerà anni di studio in cui apprenderà nozioni e soprattutto metodo, in sostanza da qualsiasi branca dello scibile umano; dalle materie scientifiche come le fisiche e le scienze delle costruzioni, alle materie umanistiche come le storie e le scienze sociali passando per studi economici, botanici, medici
disciplinati ovviamente dagli insegnamenti caratterizzanti tra cui la progettazione architettonica e quella urbanistica. Viviamo la nostra bella facoltà di architettura, fatta da un architetto bravo e contemporaneo, anche dodici ore al giorno per 5, 6, 7, 8
anni. Poi quando usciamo la sera con altri amici spieghiamo loro perché ci piace piazza Dante come punto d'incontro prima di andare in piazza delle Erbe e perché un locale è magari più bello di un altro.
La riflessione sullo spazio in cui viviamo è continua e si confronta spesso con i pregiudizi della gente.
Vogliamo capirne il perché prima ancora di proporre le nostre utopie.
Qualcuno di noi la butta lì:
«Io andrei a vivere al Biscione»
Occhi spalancati, e corale risata della compagnia.
Il paradosso è che molte persone in lista di attesa per una casa popolare, quando è offerto loro un alloggio in quartieri considerati mostri, ha tanta paura della triste fama che li circonda che in alcuni casi rinuncia ad andarvi.
Allora perché andarci volontariamente a vivere?
È solo una provocazione?
No, è il solo modo per testimoniare che la vita è possibile e a certe condizioni apprezzabile anche in luoghi che, lungi da essere un modello per il futuro, sono considerati da tutti invivibili con la stessa sicurezza con cui sappiamo che fumare fa male.
L'immagine che abbiamo delle città in cui viviamo è una proiezione mentale che spesso non rispecchia la realtà.
Quanti di voi sanno dove è la diga di Begato? Come sono fatti i suoi appartamenti? Quanti di voi si sono arrampicati fino al Biscione e si sono fermati a guardare il panorama che abbraccia l'intera città?
Susy De Martini, nel suo articolo fa giustamente notare che la libera scelta di andare ad abitare in una condizione di così apparente collettività è cosa diversa dalla coercizione dello stato di necessità dei suoi inquilini.
Dove forse sbaglia è, secondo noi, in una forzata interpretazione del rapporto di causa-effetto tra disagio e luogo di vita. Non confutiamo nessuna teoria sociologica se diciamo che in molti casi il rapporto è invertito: molti spazi sono vissuti male anche per la scelta errata di concentrare in questi luoghi persone con grande problematicità sociale e psichica pregressa e non successiva all'insediamento nel mostro.
Questa scelta, giustificata dall'emergenza di allora, è prima scelta politica e poi architettonica.
E politica è l'inerzia con cui non si fa nulla per cambiare.
Paradossalmente a quanto si dice questi edifici non sono assolutamente sovraffollati, i nuclei composti da una sola persona sono anche il 20 % e in molti casi gli appartamenti sono di dimensioni dai 75 ai 95 mq appropriate al numero degli occupanti.
Il problema di eccessivi assembramenti di persone si trovano in alcune parti del nostro amato centro storico!
Qui semmai il problema è quello dell'isolamento e della solitudine che creano comunque segregazione. La carenza di servizi è anche conseguenza di questo isolamento e della reputazione che affligge questi quartieri impedendo ogni iniziativa imprenditoriale.
Franco Purini - professore e critico dell'architettura - parlando a proposito del Corviale, altro quartiere dinosauro alle porte di Roma, dice che il modo di fare riconciliare questi edifici con la città sarà tanto più efficace «quanto prima rifiuteranno l'etichetta di emergenza costruita, di caso limite, di catastrofe architettonica, per guadagnare finalmente la normalità abitativa che da tempo merita(no). Con le necessarie correzioni architettoniche».
E quando questa normalità abitativa non fosse perseguibile?
Come è stato detto dal presidente dell'Ordine degli Architetti di Genova Domenico Podestà, in seguito anche allo studio svolto dall'Urban Center sulla diga di Begato (studio a cui abbiamo avuto la fortuna di collaborare), siamo pronti a suffragare l'abbattimento di questi edifici se ciò può servire a ripartire e a sostenere con l'impegno di tutti l'amore per il vivere urbano così da uscire dall'empasse culturale della villettopoli che disperde nel territorio, consumandolo, il valore della convivenza sociale.
Per ritrovare, senza retorica, la civitas è necessario ricercare ancora la forma nell'urbs costruendo nuove case. Anche tante se occorre.
Il problema della casa sta infatti tornando preoccupantemente vivo.
Il socialismo reale non si è realizzato e la fabbrica è ormai lontana. L'utopia della macchina da abitare è tramontata insieme a quella classe operaia che avrebbe trovato in questi luoghi la totalizzante coesione per portare avanti lo scontro sociale.
L'errore di allora fu quello di non capire questo cambiamento.
Stia quindi tranquillo Massimiliano Lussana, non proporremo nessun grattacielo da un milione di abitanti per il centro di Genova.
Cordialmente,
Paolo Raffetto
(praffet@alice.it)
Valentina Solera
(valentinasolera@libero.it)
Valentina Stoppani
(valesto@inwind.it)
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