Le armi improprie di De Benedetti, politico "pericoloso"

Possiede un impero di carta di cui è comandante assoluto E lo usa come macchina da guerra contro gli avversari

È la terza volta che mi avventuro nella biografia di Carlo De Benedetti, un uomo che ho sempre osservato con estrema curiosità e una punta di apprensione: quell’apprensione che provo tutte le volte che mi trovo di fronte a queste figure mobilissime e inafferrabili della finanza che fondano società, ne acquistano, ne smembrano, ne vendono, le compongono come pezzi di un gioco di costruzioni, le battezzano con sigle, le rinnegano e le ricompongono e che prima o poi sono tentate dal possesso della carta stampata non per ricavarne profitto come editori di mestiere, ma per mantenere a disposizione armi cariche da usare quando le circostanze lo consigliano. Non mi azzardo a dire «io lo conoscevo bene»: l’ho visto un paio di volte, credo, a cena sulla terrazza estiva di Eugenio Scalfari in una stagione ormai lontana della mia vita. E infatti ricordo un De Benedetti giovane, ricciuto, moro, cordiale, determinato, dai commenti taglienti e dai silenzi ostinati, dunque un tipo interessante. Ma anche inquietante.
Industrialmente avevo molto apprezzato che costruisse gli unici computer italiani con la Olivetti, e ho dei miei vecchi amici americani che ancora ne conservano un esemplare con la stessa nostalgia con cui io ho conservato la mia antica «Lettera 22», come tutti i giornalisti e gli antichi studenti del secolo scorso. Poi creò Omnitel, si dette alla commercializzazione dei telefoni e addio computer italiano, anche quello al macero.
Naturalmente il motivo che rende oggi De Benedetti degno di particolare attenzione è il fatto che sia l’editore di Repubblica. E io, come credo che sappiano tutti, ho un fatto personale con questo giornale di cui sono stato un (gregario) co-fondatore nel 1976, facendo parte della piccola ciurma raccolta a piazza Indipendenza da Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo, quando De Benedetti entrava nella Fiat per amicizia familiare con gli Agnelli e ne usciva subito dopo per aver litigato con gli stessi Agnelli ma portandosi via, si disse, una liquidazione da sceicco. Il mio fatto personale con il giornale di De Benedetti (Scalfari glielo vendette, nella costernazione generale dei redattori che con lui avevano creato questo gioiello partito da zero copie e arrivato al milione superando il Corriere) sta nel fatto che quello strumento cartaceo è sempre stato, oltre che un quotidiano di notizie, uno strumento di intervento politico: un meccanismo micidiale, una macchina da guerra per fare campagne, lontanissimo dall’idea e dal mito anglosassone della informazione indipendente, completa, imparziale.
Era così ai tempi di Scalfari, l’inventore, che comandava l’ammiraglia come un vascello pirata. È così oggi, con un giornale che batte la campagna con le sue artiglierie, facendo campagna, anche se ha perso ogni charme e ogni aspetto glamour originario.
E quando un giornale fa campagna, qualsiasi campagna, anziché limitarsi a informare e commentare, è lecito chiedersi quale sia l’obiettivo delle sue campagne, quale la strategia e chi lo stratega. È naturale che oggi si guardi alle campagne di Repubblica immaginando che lo stratega, l’uomo che ne promuove e ne vuole i risultati, sia lo stesso editore, Carlo De Benedetti.
Ma voglio anche dire la mia su questa vicenda: io non penso, conoscendo gli attori, le comparse e i capitani sul terreno, che De Benedetti stia guidando un complotto contro Berlusconi. Penso che abbia approfittato delle sue debolezze in maniera micidiale, azionando tutti i moltiplicatori possibili e immaginabili. Non che Repubblica sia incapace di complotti e strategie fondate sulla menzogna e io ne sono un esempio, come ho documentato nel mio libro Il mio agente Sasha che consiste in larga parte nello smascheramento di un vergognoso castello di bugie di questo giornale per demolire la Commissione Mitrokhin facendo ricorso ad ogni stratagemma. Intendo dire che non sono certo io, che ho denunciato i comportamenti di Repubblica alla magistratura, la persona più neutrale per analizzarne i metodi, ma certamente mi considero una delle persone più competenti, sia come bersaglio di questo giornale, sia per essere stato a mia volta un ufficiale di grado non basso di quel galeone, la benda sull’occhio e la draghinassa fra i denti: conosco se non tutta la ciurma, oggi cambiata, almeno il genoma della ciurma.
Torniamo a Carlo De Benedetti: ha un ruolo in politica e ha un ruolo nella conduzione dei suoi giornali? Risposta ad entrambe le domande: sì, certamente. Ha un ruolo in politica perché si è pubblicamente schierato con la sinistra erede del vecchio Pci e delle sue successive trasformazioni, anche a prescindere dalla storia della «tessera numero 1», e perché – bisticciando con suo figlio Rodolfo - ha voluto mantenere fra le sue prerogative assolute e monocratiche il diritto di nominare i direttori di Repubblica, dell’Espresso e di tutti i quotidiani locali del suo impero di carta, quello stesso impero che Rodolfo volentieri alienerebbe in cambio di attività finanziarie e industriali meno precarie della carta stampata, che è sempre in perdita, a rischio, ed espone a sospetti pesantissimi.
Dunque Carlo De Benedetti è certamente, e per sua legittima scelta, anche un protagonista politico della nostra storia e come protagonista politico è lo stratega di un impero di giornali da campagna. Quindi è (anche) un politico che fa politica attraverso strumenti che non sono propriamente politici, i giornali, sicché anche lui è corresponsabile della disgrazia del nostro disgraziatissimo Paese che non ha, o non ha più, la benché minima traccia di una stampa indipendente che fornisca sul mercato notizie imparziali. Non è tutta colpa sua, è ovvio, ma il finanziere e industriale, ed esponente politico, Carlo De Benedetti è anche lui un corresponsabile della negazione del servizio pubblico dell’informazione garantita per qualità, completezza e indipendenza cui gli italiani avrebbero ed hanno vanamente diritto.
Leggo, cercando su Google, che De Benedetti sogna quest’anno, il 2009, di diventare cittadino svizzero, forse perché non è contento di come vanno le cose malgrado il suo impegno. Ma certo è che il personaggio è complesso, massiccio, discutibile. Quando nel 1990 scoppiò la guerra fra lui e il presidente Cossiga, quest’ultimo lo accusò di aver fornito al Quirinale materiali di scarto, come telescriventi, fax, computers. Ma lo stesso Cossiga, quando si sentì dire insieme a Gianni de Michelis ministro degli Esteri, dal presidente americano George Bush padre, che De Benedetti andava considerato un uomo pericoloso perché trafficava in tecnologia proibita con l’Unione Sovietica, reagirono entrambi, Cossiga e de Michelis, come un sol uomo per difenderlo e fare quadrato intorno all’industriale italiano.
Ma la nomea di uomo dei sovietici gli restò e gli americani non gli perdonarono i suoi rapporti privilegiati con Mosca, cosa sulla quale concordava anche Alexander Litvinenko, il mio agente Sasha, sostenendo che le attività industriali e finanziarie di De Benedetti in Urss lo avevano reso un partner fin troppo amicale e fraterno dell’impero sovietico. Poi naturalmente ci fu la storia della Sme e di Prodi e la centralità di un affare molto dubbio e molto poco edificante: sembrò a Craxi, presidente del Consiglio, che Prodi presidente dell’Iri svendesse a prezzi d’amicizia e fuori mercato un’azienda che conteneva i gioielli dell’agroalimentare italiano ad un sodale come De Benedetti. Di qui una forsennata guerra politica, finanziaria, giudiziaria, economica e dai risvolti internazionali la cui eco ancora rimbomba nel lontano big bang da cui venne fuori questa cosiddetta seconda Repubblica.
A 75 anni De Benedetti non può essere considerato vecchissimo, ma certamente un uomo nella fase finale della sua vita attiva, che gli auguriamo lunga. E non si può sapere che cosa sarà del suo impero di carta il giorno in cui decidesse di abbandonare. Sta di fatto che oggi è seduto sul suo trono, impugna il suo scettro di comando, partecipa in primissima persona alle attività e dunque alle campagne di Espresso e Repubblica, come è del resto nella stretta logica delle cose. Oggi è impegnato, visti i giornali di cui ha voluto conservare il comando, nello sfruttamento più accanito delle vicende personali che vedono come protagonista il presidente del Consiglio.
Dunque, è certamente un duellante. E se le sue armi giornalistiche fossero per quanto possibile pure, allora il loro uso non potrebbe dare adito alle accuse di chi vede nelle campagne attuali lo svolgimento di un complotto e forse di una sorta di colpo di Stato strisciante, del genere di quello che fu scatenato contro il presidente della Repubblica Cossiga. Io non credo al colpo di Stato e fin qui non ho motivo di credere al complotto, sembrandomi il materiale spontaneo più che sufficiente per dar fuoco a molti barili di polvere. Ma questa è la mia opinione personale.

Resta il fatto che un finanziere e capitano d’industria, per sua pubblica scelta, sovrintende a un’operazione che è anche e prima di tutto politica. E questo ci sembra un dato incontrovertibile ed anche molto preoccupante come tante altre anomalie del nostro sventurato Paese.

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