Fanno vite silenziose e riservate, in questo territorio vasto e complesso come è Milano, spesso ci si accorge di loro solo quando arrivano dietro ai banchi: «Nella classe di mio figlio cè un disabile». Così fanno capolino i bambini portatori di handicap. Eppure il loro numero è in aumento. Nella scuola dellInfanzia (non sempre frequentata dai bambini con disturbi fisici o psichici) il loro numero negli ultimi sei anni è raddoppiato. Sono 370 nelle scuole milanesi, ma arrivano a 1670 nelle scuole primarie. Numero che non rispecchia il totale di tutti i bambini disabili che abitano a Milano. Perché in molti casi non sempre le famiglie usufruiscono della scuola.
Lindagine è stata condotta da Labilità, una onlus che oltre a promuovere interventi attivi sul territorio per aiutare le famiglie con bambini disabili, da due anni sta monitorando il fenomeno. E in collaborazione con il Centro ateneo di ricerche sulla famiglia dellUniversità Cattolica ha messo in luce un fenomeno ancora poco preso in considerazione, ma con il quale ospedali e scuole stanno già facendo i conti: laumento dellimmigrazione è andata di pari passo con laumento dei bambini disabili immigrati. Tanto che nelle sei neuropsichiatrie degli ospedali milanesi il 30 per cento dei bambini in cura sono appunto stranieri. Con tutto il carico di problemi che ne deriva. Secondo lo studio illustrato dallassociazione Labilità alcune neuropsichiatrie sono sprovviste di materiale tradotto nelle lingue di provenienza degli immigrati. «Capita così - spiega Laura Borghetto presidente dellassociazione -, che molti genitori si servano dei figli magari di otto o nove anni per farsi tradurre quello che sta dicendo il medico». Ma non solo. Cè stato il caso di una famiglia indiana con una bambina autistica che ha rifiutato categoricamente lintervento di un assistente sociale perché (come vuole la loro tradizione culturale) considerato di casta inferiore alla propria famiglia. E ancora: la maggior parte delle donne straniere spesso ignora sindromi che per noi ormai sono conosciute e date per acquisite. È il caso della sindrome di Down. «Da una mamma straniera che aveva un figlio di un anno down mi sono sentita chiedere se sarebbe mai stato in grado di camminare - racconta unoperatrice dellAnfas -. Un'altra mi ha chiesto se sono in grado di parlare». Disinformazione, ma anche solitudine.
«Dopo aver tagliato i legami con le famiglie di origine, molte famiglie straniere non riescono a ricostituire da noi una rete sufficientemente capace di supportarle o di dare loro semplicemente una mano - spiega Cristina Giuliani, ricercatrice della Cattolica -.
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