Astenersi è un diritto: non è un’elezione

RomaNon c’è niente di più relativo di una disputa sul senso dell’astensionismo nei referendum nostrani. Oggi chi brama la vittoria nelle consultazioni di domenica e lunedì si appella al cosiddetto dovere civico (anche se sotto sotto dà un valore propriamente politico al voto). Magari in altre occasioni aveva espresso opinioni diverse. Il caso più eclatante è stata la campagna politica promossa dai Ds contro il referendum che nel 2003 chiamava i cittadini a esprimersi sulla modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. «Non votare un referendum inutile e sbagliato è un diritto di tutti» questo lo slogan usato allora dai Ds. C’è poi l’esempio di Francesco Rutelli che, quand’era leader della Margherita (nel 2005), convocò una conferenza stampa per precisare che si sarebbe astenuto dal voto ai referendum sulla fecondazione assistita. L’attuale leader dell’Api ci tenne a sottolineare che la sua era una presa di posizione personale ma dette all’astensione lo stesso valore di «atto efficace e produttivo» che è il vessillo di chi ora tenta di opporsi alla nuova ondata referendaria. «Quella di Rutelli - disse allora Fassino (Ds)- è una posizione lecita e legittima». «Dal leader della Margherita - aggiunse Adolfo Urso (An) - arrivano parole sensate». Chissà perché adesso Pier Luigi Bersani si sente in dovere di commentare con queste parole la decisione di Berlusconi di esercitare la stessa libertà di non andare a votare: «È davvero disdicevole che chi giura sulla Costituzione, non senta il dovere di dare un messaggio di civismo e partecipazione». Anche Pier Ferdinando Casini, oggi in prima fila tra i paladini referendari, nel 2005 esprimeva un’opinione diversa: «L’astensione - disse in un’intervista del maggio 2005 - non può essere ritenuta un espediente. È un pieno diritto dei cittadini». Quasi facendo il verso a Umberto Bossi e Bettino Craxi che, nel ’91 e nel ’93 furono i primi a consigliare agli elettori una gita al mare piuttosto che l’esercizio del voto referendario.
Insomma dal divorzio alla fecondazione assistita il clima è cambiato ed è mutato radicalmente il giudizio sul valore dell’astensionismo come espressione della libertà politica dell’elettore. L’ultimo referendum valido è stato quello del ’95. In quell’occasione il quorum è stato raggiunto per tutti i quesiti sottoposti al voto degli elettori (ben dodici). Tra i quali vanno ricordati quelle che facevano diretto riferimento alla concessioni televisive nazionali. Vinse, per la cronaca, il «no» all’abrogazione delle norme che consentivano la concentrazione di tre reti televisive in mano a un privato. Da allora ha sempre vinto il partito dell’astensione. Con buona pace di chi, oggi, sbandiera il cosiddetto «diritto civico» di esprimere comunque un voto. In fin dei conti non è altro che un progressivo mutare delle abitudini politiche degli stessi elettori, prima ancora che dei dirigenti di partito. Con il primo referendum abrogativo della nostra storia, infatti, l’elettore si comportò in maniera affatto diversa. Ben l’87,7% di persone si espresse in merito al referendum che nel ’74 chiedeva di abrogare la legge che introduceva il divorzio. La Democrazia Cristiana fece una appassionata battaglia per il «No», ottenendo però soltanto il 40,7% dei voti. Con il senno di poi, probabilmente avrebbero optato per la strategia dell’astensione.
C’è da dire che fino a pochi lustri fa erano in vigore sanzioni per chi non ottemperava a questo cosiddetto dovere civico di esprimere il voto. Sanzioni, però, rimaste sempre lettera morta. Una sola volta un giudice si trovò nelle condizioni di dover decidere in merito a una denuncia avanzata da un’associazione animalista contro la Federcaccia che nel ’91 aveva invitato all’astensione sul referendum indetto per restringere l’attività venatoria. Il giudice si appellò al cosiddetto combinato disposto degli articoli 48 e 75 della Costituzione ipotizzando addirittura il reato di istigazione a violare le leggi elettorali. Ma fu un caso isolato e poi archiviato.

Per i padri della Costituzione, infatti, il dovere civico citato nell’articolo 48 è frutto di un compromesso tra chi chiedeva di valorizzare il voto come espressione di libertà individuale e chi lo vedeva come un obbligo giuridico di partecipazione democratica.

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