Austerlitz, il capolavoro dell’«animale ferito»

La vittoria più brillante del Grande Còrso attraverso le gesta dei protagonisti

Di che pasta è fatto il genio? Oltre al talento naturale, quali altre doti si richiedono? L’interesse per Napoleone, che non conosce flessioni con il passare delle generazioni, nasce da qui, è il prisma che permette di scomporne la luce e carpirne i segreti. Da adesso al fatale 5 maggio 2021, una serie di bicentenari continua a riproporre l’enigma a quei cercatori d’oro che sono i bonapartofili. Lo scorso anno si è commemorata l’autoincoronazione in Notre Dame, quest’anno tocca a Trafalgar e Austerlitz, due eventi strettamente connessi tra loro, e separati da sei sole settimane.
Nell’autunno 1805 Napoleone capisce che non riuscirà a sbarcare in Inghilterra perché non riesce a farsi garantire dai suoi amletici ammiragli le sei ore di mare libero che gli servono. Decide allora di portare verso est l’armata che si preparava a Boulogne: affronterà la coalizione austro-russa, largamente finanziata dagli Inglesi, sulla terra, assai più affidabile del mare. Pur in inferiorità numerica (c’è abituato), batterà l’Inghilterra per interposto avversario.
I due eserciti, dopo varie scaramucce e un lungo surplace e dopo che Vienna è stata occupata da Murat (invece di inseguire i vinti), si affrontano sulle colline della Moravia, nei pressi del paesino di Austerlitz, decisi a infliggersi un colpo mortale che sistemi la sfida una volta per tutte. Invano il vecchio generale russo Kutusov ammonisce di non cercare lo scontro diretto, citando l’esempio di Annibale logorato dall’attendismo romano. Il tempo lavora per l’alleanza, con gli anni il gap tecnologico con i francesi si va colmando. Avere contro tutti è troppo anche per Napoleone.
È il giovane zar Alessandro a cercare lo scontro. E Napoleone sta al gioco: recita la parte dell’animale ferito, simula ripiegamenti, incertezze, scoraggiamenti. Finge di rifiutare la battaglia e prepara la trappola, aiutato dall’insipienza dei comandi alleati. Il gelido professorino austriaco conte Weyrother ha approntato un piano troppo sofisticato: avrebbe attaccato in forze l’ala destra francese per poi prendere alle spalle il centro. Ha un bel dire Tolstoj che il piano era perfetto. Di certo sulla carta. Sul terreno presumeva un coordinamento, una velocità, un sincronismo, insomma tante qualità che gli austro-russi, male equipaggiati e peggio nutriti, non possedevano, a corto com’erano di preparazione, con i ranghi pieni di reclute che non erano mai andate al fuoco, avevano avuto tre sole pallottole per esercitarsi al tiro, ed erano abituate alle tranquille manovre delle piazze d’armi. Figurarsi se potevano farla a uno che aveva la forsennata mobilità di Napoleone.
Se Austerlitz è uno degli elementi fondanti del mito napoleonico, gli avversari hanno fatto di tutto per renderlo più splendente. L’esito della battaglia era già segnato sin dalla mattina. Sergio Valzania nel suo nuovo Austerlitz. La più bella vittoria di Napoleone (Mondadori, pagg. 256, euro 17,50) ce ne dà ora una ricostruzione coinvolgente che affonda spesso lo zoom sui dettagli significanti, ma non disdegna le panoramiche dei tempi lunghi, come la filosofia del «sistema operativo» di Napoleone, ma anche le difficoltà che lo perderanno, che non avrebbero potuto che perderlo.
Stendhal e Hugo ci hanno raccontato come sia difficile capire qualcosa di quel che succede su un campo di battaglia. Su quello di Austerlitz, lungo dieci chilometri da nord a sud, fu anche peggio del solito, complice la nebbia. Valzania è giustamente cauto nell’uso delle fonti, in un’epoca in cui è difficile avere riscontri oggettivi e le impressioni personali creano un confuso rumore di fondo: non mira a stupirci con effetti speciali, ma racconta con onestà, lasciando sempre aperta la porta al dubbio, e ricorrendo semmai al conforto dei numeri, che raramente ingannano. Apprendiamo per esempio che nella Grande Armée il passo di marcia prescritto misurava due piedi, ossia 75 centimetri, per 66 passi al minuto e una velocità di 3 chilometri all’ora, zaino in spalla e fucile imbracciato.
Le storie dei singoli protagonisti, dell’una e dell’altra parte, imperatori in testa, offrono a Valzania l’occasione di delineare una bella serie di ritratti. Citerò per tutti il generale francese Valhubert che, ferito gravemente, respinge i soccorsi: «Restate ai vostri posti. Posso benissimo morire da solo. Se cade un uomo non è una buona ragione per perderne sei». Bravissimi a morire, molti generali non sono così bravi a fare il loro mestiere.

Qua e là ci sembra di sentir raccontare sotto mentite spoglie quello che fanno o non fanno certi finanzieri, imprenditori e manager d’oggi, un misto di impreparazione, supponenza, pigrizia intellettuale, gelosie reciproche, scarso senso di realtà e latitanza di buon senso, inclinazione allo scaricabarile. Se fare storia è sempre parlare di oggi giocando di rimbalzo, dagli errori che ad Austerlitz hanno fatto un po’ tutti, e dal libro di Valzania, ci sarebbe molto da imparare.

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