Con un’Ave Maria si assolve dai morti di Tangentopoli

Di Pietro non ha rimorsi su Mani pulite: "C’è la preghiera". Eppure eleva a martire politico un suo consigliere che invece fu ucciso dal vicino di casa

Con un’Ave Maria si assolve dai morti di Tangentopoli

Da mani pulite a mani giunte, ci vuole poco e così sia. Ci sono momenti, nella vita, in cui si può riflettere e capire di avere sbagliato. Non è ancora il momento, questo, per Antonio Di Pietro. Lui non si pente, conferma, non lascia, raddoppia, ribadisce, illustra, spiega ma aggiunge una clausola finale leggermente modificata, non si ode il tintinnar di manette ma l’odore dell’incenso, non la galera ma la chiesa. Lo dice lui stesso a Tempi, in edicola oggi. Parla di quello che fu, che è stato e che, comunque, sempre sarà, Tangentopoli con gli annessi e connessi, morti, alla voce suicidi, arresti, alla voce innocenti: «Rifarei tutto. Un magistrato deve rispondere solo alla legge e io ho agito in base al fascicolo, senza guardare il colore politico. Rimorsi? Ma per l’amor di Dio! Il magistrato è come un medico che, pur avendo fatto il possibile, si ritrova il paziente fra le mani. Non è che possa essere contento. Sente il senso della sconfitta. Ma questo è un aspetto dell’umano vivere e ognuno sa che il limite della propria azione è in sé. Però poi c’è la preghiera». Una prece, si potrebbe concludere. Ma, in verità, quando il paziente è un inquilino di casa propria le cose vanno in modo diverso, la prece si fa urlo, la parola di Dio diventa bestemmia dell’uomo. Prendete un caso di cronaca nera, roba dell’estate di un anno fa, Puglia, meglio, il Salento. Morte per accoltellamento. L’epilogo. Vado per ordine.
Vittorio Colitti, sessantasei anni, agricoltore. Luigi Colitti, vent’anni, suo nipote. Sono stati arrestati ieri mattina a Ugento, l’accusa è di concorso in omicidio volontario, detenzione e porto abusivo di un coltello. Sarebbero loro gli assassini di Giuseppe Basile, morto nella notte tra il quattordici e il quindici giugno del duemila otto, davanti alla sua abitazione a Ugento. Diciannove coltellate al cuore, nel buio di una stradina che finisce in un tratturo e poi nel grande prato, la periferia ugentina.
Giuseppe Basile era il consigliere comunale dell’Italia dei Valori, era fumantino di carattere e, insieme, bonario e generoso. Le sue battaglie politiche contro il malgoverno cittadino, la giunta di centrodestra presieduta dal sindaco Eugenio Ozza, erano state le bandiere sventolate puntualmente dopo la sua scomparsa: omicidio politico, assassinio di regime. Antonio Di Pietro aveva immediatamente sottoscritto gli slogan, era sceso a Ugento per onorare la salma di Peppino nella sala consigliare, aveva promesso massima vigilanza a tutela dei valori della «sua» Italia. «Una, dieci, cento, mille piazze» aveva strillato a Roma, dal palco di piazza Navona, giurando la propria presenza e partecipazione a qualunque manifestazione sulla libertà e contro il potere. In verità quando a Ugento si svolse la fiaccolata in memoria di Basile, a un mese dalla sua morte, il Di Pietro di cui sopra, dopo aver promesso il proprio arrivo, annunciato su volantini e manifesti, preferì evitare la piazza salentina, così mancando al primo impegno. Forse aveva capito che non era l’omicidio giusto, se mai possa esistere un omicidio giusto, forse soltanto per la propaganda di partito.
Per un anno e mezzo, comunque, la propaganda ha trovato terreno fertile: libri, convegni, opuscoli sul caso e sui suoi sviluppi, illazioni, deduzioni, un buon mercato delle parole, dei pensieri e delle idee, con un capopopolo nella persona di don Stefano Rocca, sacerdote, parroco di Ugento, duro e puro, garante unico, così sembra, della morale e dell’ordine di un paese minacciato dalla mafia, dalle cosche, dalla politica violenta, dalla corruzione.
È paradossale che ieri, in congiuntura con l’arresto dei due Colitti, venisse inaugurata la nuova discarica di Burgesi, la struttura per la quale Peppino Basile si era battuto, chiedendo chiarimenti, come lui sapeva fare con tono acceso, al sindaco e ai suoi collaboratori.
Un anno e mezzo di indagini tra mille voci di paese, storie di corna, di tradimenti, di malefemmine, di scommesse, di denaro sporco, il solito repertorio del tutto nel nulla, macchiato da lettere minatorie, da minacce esplicite al parroco, al sindaco, una specie di serpente velenoso che ha provato a mordere e deviare il lavoro dei magistrati e della polizia. Quelle diciannove coltellate dovevano pur avere il nome di un assassino e anche di un mandante. Qualcuno aveva ipotizzato una specie di vendetta che arrivava da fuori Salento, delinquenti comuni, forse la droga.
Poi la svolta. Imprevista, fantastica, non fantasiosa. La testimonianza di una bambina di sei anni che quella notte qualcosa aveva visto, udito, la memoria di chi può aver paura di una favola con il lupo mannaro ma non ha paura di parlare, di dire candidamente quello che ha sentito, quello che le è rimasto fotografato nella mente ancora pura, senza condizionamenti, complicità, interessi. Vittorio Colitti è un agricoltore senza storia se non quella comune a mille altri paesani e contadini come lui. Ama la caccia, va per tordi e lepri (rare) nel bosco dei Romani, non oltre Ugento, dicono che sia un tipo pacifico, vive la vita di paese, il bar, la messa, anche se don Stefano non l’aveva più visto in parrocchia da quei giorni maledetti. Suo nipote, poi, che all’epoca era minorenne, è un ragazzone senza arte né parte, oggi è indicato come la figura oscura che avrebbe pugnalato diciannove volte il vicino di casa.
Eppure le voci di dentro e di fuori riferivano che Peppino Basile si era invaghito della nuora di Vittorio e che la storiaccia aveva fatto il giro del paese per avvelenare la vita della famiglia Colitti. Mormorii, sussurri, l’ombra dell’omicidio politico, la solita propaganda, in mancanza d’altro.
Nonno e nipote sono al gabbio, Ugento prova a credere che sia tutto finito. Non penso. C’è sempre bisogno di un sospetto.

C’è sempre bisogno di non credere nemmeno che le parole di una bambina siano vere. «Allo squaiare ta nive», dice un proverbio salentino. Allo sciogliersi della neve, resta lo sporco, nero, sudicio della vita di tutti i giorni. Informate Di Pietro Antonio.

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