Non ebbe una vita lunghissima - solo cinquantasette anni compresi fra il 1879 e il 1936 - Jacques Bainville, il grandissimo storico francese, autore, fra l’altro, di una celebre biografia di Napoleone, pubblicata per la prima volta nel 1931, tradotta in numerosi paesi e, dappertutto, continuamente ristampata. Questa vita, in gran parte, egli la trascorse a Parigi, diviso fra la sua abitazione nel quartiere di Saint-Germain, immerso nella lettura e nella stesura di libri, e la redazione del quotidiano nazionalista L’Action Française del quale fu una delle firme più autorevoli e dove divise la stanza con il sanguigno Lèon Daudet, autore di un famoso pamphlet dal titolo Le stupide siècle XIX.
I due intellettuali divennero grandissimi amici, ma erano quanto di più diverso si potesse immaginare, così nell’aspetto come nei comportamenti: gigantesco, gaudente ed esuberante, espansivo e colorito nel linguaggio, Daudet; longilineo, elegante e raffinato, riservato e misurato nelle parole e persino nelle polemiche, Bainville. E, a rimarcare la differenza fra i due, basterà ricordare che mentre Bainville tracciò, con la sua biografia napoleonica, un ritratto equilibrato dell’imperatore dei francesi, Daudet ne mise in luce i lati ombra con un pamphlet dal titolo significativo: Deux idoles sanguinaires: la révolution et son fils Bonaparte. Erano, però, entrambi, lo storico e il polemista, lavoratori instancabili amati dal pubblico.
Bainville, in particolare, pubblicò quasi un libro all’anno e scrisse due o tre articoli al giorno dedicati soprattutto ai temi di politica estera e di politica economica e finanziaria. Era uno scrittore prolifico cui il successo arrise molto presto, appena ventenne, all’indomani di un suo soggiorno in Germania, con la biografia Louis II de Baviere, stampata a proprie spese, ma presto salutata, unanimemente, come un vero e proprio capolavoro. Molte delle opere successive - a parte il Napoleone e la Storia di Francia, continuamente e tuttora ristampate anche in edizione economica - ottennero un successo clamoroso. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, nel 1939, un suo celebre saggio, Les consécuences politiques de la paix, pubblicato originariamente nel 1920 e ristampato qualche anno fa da Gallimard, aveva raggiunto la quarantaduesima edizione.
La popolarità di Bainville è rimasta inalterata in Francia (ma anche all’estero, sia pure limitatamente ad alcuni testi) a distanza di tanti decenni dalla scomparsa e malgrado la sua militanza nelle file del movimento monarchico dell’Action Française. Lo dimostrano non soltanto la riedizione delle sue opere e la pubblicazione di biografie a lui dedicate (da quella di Dominique Decherf a quella di Christofe Dichès), ma anche lìorganizzazione di un importante convegno di studio i cui atti sono stati appena stampati con il titolo Jacques Bainville. Profils et réception (Peter Lang, pagg. 276) a cura di Olivier Dard e Michel Grunewald.
Proveniva, Jacques Bainville, da una famiglia della buona borghesia francese di sentimenti repubblicani ma, in fondo, conservatori, una famiglia che nutriva simpatie per il moto europeo delle nazionalità e per una certa cultura tedesca impregnata di illuminismo. Ma ben presto, già nel 1899, aveva abbandonato le idee repubblicane assimilate nell’ambiente familiare e si era avvicinato agli ambienti monarchici. Lo aveva fatto in maniera autonoma e non già, come molti altri repubblicani di destra, sull’ondata del caso Dreyfus. A differenza di questi, egli era convinto dell’innocenza del capitano francese accusato di spionaggio a favore della Germania, ma non aveva voluto intrupparsi nel «partito di Zola», perché questo gruppo di intellettuali non si limitava a condannare l’ingiustizia perpetrata nei confronti di Dreyfus ma criminalizzava l’intero esercito.
Sta di fatto che Bainville divenne monarchico, amico e collaboratore di Charles Maurras e pilastro dell’Action Française senza alcuna intermediazione da parte dello stesso Maurras. È una circostanza, questa, importante da sottolineare perché spiega, per un verso, la diversa concezione della regalità che avevano i due uomini e, per altro verso, i motivi della persistenza, in larga parte della cultura storiografica francese (anche ideologicamente distante dalle sue posizioni) della lettura che Bainville aveva fornito della storia nazionale e della storia europea. Ha osservato giustamente Grunewald che, all’interno del mondo dell’Action Française, Bainville preservò una identità tale che, lungi dal farlo apparire un teorico come Maurras o un pamphletaire come Daudet, lo presentava, grazie alla moderazione del linguaggio e soprattutto alla pertinenza delle analisi, come un «esperto» da rispettare e da prendere in considerazione indipendentemente dalle idee politiche.
Bainville, anche quando si occupava di attualità attraverso gli articoli di giornale, era uno storico vero, uno storico nato, che si preoccupava di afferrare e seguire il filo rosso che collega avvenimenti anche lontani nel tempo e che permette di cogliere linee di tendenza anche future. Senza peraltro indulgere alla troppo facile tentazione della profezia. In proposito, anzi, Bainville, nel suo diario, annotò con un pizzico di ironia: «Si può predire certo con sicurezza la caduta di un governo come la morte di una persona. È una cosa che non può non capitargli. L’essenziale, affinché la profezia resti giusta, è che non dica quando».
E alcune linee di tendenza, soprattutto sul futuro dell’Europa del Novecento, Bainville ebbe la capacità di coglierle. Nel volume su Les conséquences politiques de la paix - un lavoro pubblicato alla fine dell’estate del 1920 e, giustamente, considerato parallelo al saggio su Le conséquences economiques de la paix di John Maynard Keynes, tanto che qualche anno fa i due saggi furono pubblicati da Gallimard riuniti insieme - Bainville offriva una analisi premonitrice. Nel nuovo assetto dell’Europa costruito all’indomani della Prima guerra mondiale con «una pace troppo dolce per ciò che ha di duro e troppo dura per ciò che ha di dolce» egli intravedeva le premesse per un nuovo e, purtroppo, ineluttabile conflitto. A suo parere, da una parte, il crollo dei grandi imperi multinazionali e la loro «balcanizzazione» e, dall’altra parte, la persistenza di una Germania unita e centralizzata, sia pure sotto forma repubblicana, avevano determinato una situazione per certi versi paradossale che vedeva il paese vinto, cioè la Germania, uscito in realtà rafforzato dal crollo delle strutture politiche e istituzionali che storicamente avevano garantito pace ed equilibrio in Europa. Egli era convinto che l’esistenza di una Germania potente avvelenasse la vita europea, sin dalla sconfitta francese a Sédan nel 1870, dalla fine del secondo impero e dalla nascita del Reich: «fino a quando esisterà la potenza tedesca non ci saranno per nessuno riposo e tranquillità», scrisse nel suo diario ribadendo, però, un concetto che aveva sempre espresso fin dai primi lavori, dal ricordato Louis II de Baviere al successivo Bismarck et la France del 1907.
Peraltro, la questione tedesca, fondamentale per la riflessione storiografica di Bainville, fu al centro di molti suoi lavori, a cominciare dalla Histoire de deux peuples (1915), ma lo fu in maniera razionale ed equilibrata senza nessuna concessione a posizioni di preconcetta germanofobia. Come doveva essere nello spirito di uno storico serio, acuto ed equilibrato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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