Stefano Zurlo
da Milano
Gli dispiace, e non poco, che lo arpionino sempre con la più scontata delle domande: un magistrato che prende la strada della politica? «Non sono più magistrato da tre anni e mezzo», risponde asciutto Gerardo DAmbrosio. E si dispiace ancor di più nel vedere il suo nome stampato sui giornali dentro un alone di polemiche. «Basta, basta, sono stufo che si discuta sempre delle stesse cose», afferma fra lo scoraggiato e lindignato. A 75 anni il pensionato e candidato DAmbrosio vorrebbe cominciare una seconda vita e togliersi di dosso quella definizione che lo insegue da tempo immemorabile: la toga rossa. Vorrebbe, ma fatalmente la sua ascesa verso i palazzi della politica offre nuovo carburante ai mal di pancia della sinistra, alle critiche della destra, al disagio trasversale di tanti che sinterrogano sulla sua scelta.
Lui finge di stupirsi unaltra volta, perché alla fine è sempre il passato ad afferrarlo per la toga e a rinchiuderlo in quello schema. Del resto DAmbrosio è rimasto in magistratura per 45 anni, 6 mesi e 29 giorni. Il suo curriculum è un viaggio in profondità nella nostra storia e una ricognizione di ferite ancora aperte: la morte di Pinelli, dove non sposò la versione dellomicidio gradita alla piazza rossa, piazza Fontana, lAmbrosiano, e poi dal 1992, Mani pulite.
In quella stagione, DAmbrosio smise di essere semplicemente un magistrato per diventare un simbolo: ammirato dagli uni, attaccato dagli altri. Tangentopoli, si sa, era un pentolone scoperchiato solo in parte: Dc e Psi furono rasi al suolo, Botteghe Oscure se la cavò con qualche ammaccatura. «Chi avanza dubbi sulla nostra imparzialità dimentica i nomi dei dirigenti del Pds finiti dentro le nostre indagini: Cappellini, Soave Carnevale, Cervetti, la Pollastrini, Greganti». Nomi, che in un eterno cortocircuito, alimentano nuovi punti di domanda. Già Tiziana Parenti, allepoca pm impegnato sul fronte rosso, denunciò platealmente la condizione di abbandono in cui lavrebbe lasciata proprio il coordinatore del Pool, DAmbrosio. Più recentemente è stato addirittura il gip storico di Mani pulite Italo Ghitti a lanciare la più perfida delle accuse: «Il 4 ottobre 1993, giorno in cui fu chiesta larchiviazione per il tesoriere del Pds Marcello Stefanini, la gente cominciò a pensare che non cera imparzialità». DAmbrosio ribatte riproponendo come uno scudo quellelenco di nomi, poi restituisce la cortesia al mittente: «Non era forse Ghitti a firmare gli ordini di custodia? Noi proponevamo e basta, poi era lui a decidere». Troppo comodo sfilarsi di dosso il passato, come un maglione logoro.
«Laccusa che mi ferisce di più è quella di essere stato un magistrato giustizialista. Io ero e sono garantista». Per la verità quel che gli si contesta è di esserlo stato sì ma a giorni alterni. Non gli si perdona laver colpito e affondato Craxi, colpito e mandato al tappeto la Dc, colpito con un pugno morbido come una carezza la squadra di Achille Occhetto. La sua pagina nei libri di storia è quella. Lui però prova a scrivere un nuovo capitolo: «Vorrei dare un contributo come tecnico della giustizia al mio Paese. Viviamo tempi bui, siamo prigionieri di risse continue. Posibile che invece di andare avanti ci si volti sempre verso il passato? Basta».
E allora DAmbrosio ripropone il suo libro, La giustizia ingiusta, e offre le sue riflessioni ecumeniche: «Sono stato fra i primi a dire che è stato un errore labolizione dellautorizzazione a procedere. Ho scritto che sarebbe opportuno ripristinarla, magari con alcuni correttivi. Così si supererebbe quel clima di tensione fra politica e giustizia». Ecco, a chi lo addita come uno dei capi del famigerato partito delle procure, lalfiere del Pci-Pds a palazzo di giustizia, lui risponde così: «La mia proposta di riforma dellimmunità non era e non è antiberlusconiana, anzi». Il meccanismo messo a punto dallex Procuratore di Milano garantirebbe una tregua di 4 anni ai politici braccati dai Pm.
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