Bazoli-Salza, la coppia con il comando nel Dna

Le Fondazioni oltre quota 20%. Eurizon quotata come previsto

Rodolfo Parietti

da Milano

Certo visti così, vicini vicini, hanno l’aria di due destinati a non andare mai d’accordo. Troppo diversi, si direbbe. L’uno, Giovanni Bazoli, fatica a stemperare il viso da asceta con le grisaglie d’ordinanza. L’altro, Enrico Salza, ha un faccione da luna piena, in perfetta sintonia con la stazza complessiva e un temperamento sanguigno al confine - si dice - con l’arroganza.
Eppure, a dispetto di tratti somatici da incompatibilità caratteriale, la strana coppia si somiglia. Gli stili e le sfumature sono diversi, ma la lingua è la stessa, quella che coniuga la finanza con il potere in un esercizio quotidiano. Da anni. Fino a diventare un’abitudine. Che Bazoli, bresciano, classe 1932, coltiva dall’inizio degli anni ’80 quando, poco più che cinquantenne riuscì a risollevare il Banco Ambrosiano dalle macerie lasciate da Roberto Calvi. Dunque, quasi un enfant prodige, promosso a pieni voti perfino da Enrico Cuccia, che ne tesserà l’elogio definendolo «un democristiano della miglior razza». Pur avendo dovuto subire lui, il dominus di Mediobanca, la fusione della figlia prediletta, la Comit, con Banca Intesa. Del resto, la politica è nel Dna bazoliano. Un’eredità paterna, deputato alla Costituente, sviluppata grazie all’amicizia con Beniamino Andreatta e, in anni più recenti, con Romano Prodi.
Salza è ugualmente attratto dalla politica e, nella fattispecie, dal centro-sinistra dopo essere stato per anni un liberale talmente orgoglioso della propria appartenenza da urlarla a pieni polmoni. «Sono Enrico Salza e ho votato liberale»: così, nel ’76, accolse all’aeroporto l’allora segretario Valerio Zanone, reduce da risultati elettorali poco esaltanti. Insomma: il numero uno del Sanpaolo, torinese, classe 1939, «un laico problematico» come si autodefinisce oggi, ha nell’irruenza e nella fedeltà alle proprie idee i tratti distintivi. Lo chiamano infatti il "Grande fiammiferaio", e non solo per quel primo lavoro presso l’azienda materna, la Lavaggi Fiammeri. Si incendia facilmente, anche se di mezzo c’è la Fiat, di cui da sempre il Sanpaolo è stata la banca di riferimento. Sia con Luca Cordero di Montezemolo, sia con Paolo Fresco, ha avuto modo di scontrarsi in più di un’occasione. E ben poco deve aver digerito l’operazione orchestrata da Franzo Grande Stevens per proteggere con Sergio Marchionne le sorti della famiglia Agnelli senza il coinvolgimento dell’istituto di piazza San Carlo.
Salza è però anche capace di non perdere di vista nè il quadro strategico nè gli obiettivi, come dimostra il ruolo recitato, alla fine degli anni ’90, nell’aggregazione tra Sanpaolo e Imi. E, se è il caso, rivendica quello stile molto torinese «del fare e del non dire» molto vicino al modus operandi di Bazoli. Del lavoro non in superficie, da «Torquemada del sistema bancario» come è stato definito da qualcuno, Bazoli è un maestro.

Lo ha dimostrato per l’ennesima volta con la gestione dell’emergenza durante il tentativo di scalata al Corriere della Sera da parte di Stefano Ricucci, lasciando da parte gli amati salmi biblici per sfoderare gli artigli.

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