Nostro inviato a Vienna
Quella battuta di Gary Lineker ha fatto storia: «Il calcio è un gioco in cui ci sono due squadre da undici uomini... E, alla fine, vince sempre la Germania». Basta sfogliare l’album dei ricordi per dargli ragione. Oggi l’ex centravanti inglese, che giocò nel Barcellona, fa il commentatore per The Sun e, in qualche modo, ha dovuto rivedere il concetto. «Oggi i tedeschi sono proprio modestini. Se vince la Spagna, è un successo per il football». Talvolta la sintesi di chi sa far gol è superiore a quella di chi scrive di gol. Questa Germania non è più quella di cui raccontava Lineker. Il vizietto, quello non passa mai. I tedeschi sono straordinari collezionisti di finali. Stasera sarà la tredicesima fra mondiali ed europei, ma non ha la faccia di essere la più fortunata. L’infortunio di Ballack al polpaccio destro non è stato un bel segnale. Magari c’entra un po’ di pretattica, tanto che Joachim Löw, ovvero il ct tedesco, non ha ancora messo in conto di perderlo. «Vedremo!», «Proveremo», «Aspettiamo». Ma toglie ai tedeschi quel senso di potenza, prepotenza, fisicità che sono sempre state armi per mettere in soggezione gli avversari.
Questa è una Germania che forse ha un futuro, ma potrebbe non avere un presente. Ed è la differenza con le altre che hanno costellato la storia e le finali. In Europa sono state cinque ed ognuna con un segno distintivo. Quella del 1972 costruì l’ossatura per il mondiale del 1974: era la Germania di Gerd Muller, centravanti entrato nella storia, anche se oggi qualcuno non sa neppur chi sia. Quella del 1976 era targata Beckenbauer. Quella del 1980 aveva in Horst Hrubesch, il biondone armadio a quattro ante, il centravanti che fece la differenza e decise la sfida con il Belgio segnando due gol. Nel 1992 non c’era Matthaus, ma una compagnia di pesci lessi (Sammer, Effenberg, lo stesso Klinsmann) che andò a perdere contro la Danimarca. Invece nel 1996, in Inghilterra, la parte dell’eroe acchiappato per la coda toccò a Oliver Bierhoff: uscito dalla panchina, segnò i due gol che stesero la Repubblica Ceca, sorpresa e squadra simpatia di quel torneo. Tutto finì con quel suo golden gol che all’epoca gli fruttò, al cambio odierno, un premio di 50mila euro. Buon affare!
Ora Bierhoff fa il manager della nazionale, prende gli stessi premi dei giocatori e spiega che la forza tedesca sta nel collettivo. Un modo per dire e non dire circa la bontà di una squadra ancora terribilmente cinica, ma che ha perso la tradizionale solidità difensiva. I tedeschi non hanno sprecato nulla in attacco. Basta vedere le cifre: 10 gol realizzati su 23 tiri calciati nello specchio della porta, contro le 11 reti in 44 tiri degli spagnoli. Sono veri cecchini nelle punizioni (3 reti). Ma se la sono sempre cavata con il minimo possibile: mai esaltanti. E mai esaltati. Le difese, che una volta includevano Vogts e Beckenbauer, Kohler e Forster, Matthäus e Stielike, oggi annaspano quando qualcuno arriva in velocità perché i due panzeroni centrali, Metzelder e Mertesacker, sono lenti quanto i loro nomi lunghi da pronunciare. In cinque partite subiti sei gol, quattro di più di tutto l’europeo 1996. Senza parlare di Lehmann, il portiere che se la deve sbrigare con i fantasmi di Sepp Maier, Harald Schumacher e Oliver Kahn. Impegnativo. I giornali tedeschi non perdonano nulla. «Per vincere il titolo devono migliorare del 200 per cento», hanno scritto. E Beckenbauer ha cercato di riassumere i dubbi: «Squadra enigmatica. Ha avuto alti e bassi.
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