A Beirut, tra i disperati in fuga «Crediamo solo in Nasrallah»

Nella città, allenata alla paura da anni di guerra, mezzo milione di sfollati cercano scampo a razzi e bombe. Ma molti inneggiano al leader di Hezbollah

Luciano Gulli

nostro inviato a Beirut

Che qualcosa di grosso potesse essere accaduto - qualcosa che faceva gioire i jellabah siriani che al tramonto tornavano dai campi e ora facevano ressa davanti alle tv poste come tabernacoli davanti ai bar, ai chioschi di angurie, davanti ai gommisti, agli elettrauto e alle povere rosticcerie da cui esalavano fumi di kebab -; che qualcosa di straordinario la tv araba stesse trasmettendo lo si era già intuito mentre la vecchia ma fedele Peugeot sulla quale mi ero imbarcato ad Amman stava attraversando di carriera il villaggio siriano che precedeva questo. Anche lì, guardando dai finestrini, vedevi ragazzi e crocchi di uomini baffuti che salutavano le auto in transito levando le braccia al cielo, come quando la nazionale ha messo a segno il gol decisivo. Le urla, i lazzi, gli slogan contro gli israeliani che si erano fatti bagnare il naso, loro e la loro strapotente macchina da guerra, sono durati una decina di minuti. Fino a quando il costernato telecronista di Al Jazeera ha dovuto ammettere di malavoglia che non di F16 israeliano si trattava, com’era stato annunciato; ma di volgare Drone, apparecchietto telecomandato senza pilota, un tubo con una telecamera, di quelli che si usano per spiare dall’alto le postazioni nemiche. Sai la delusione, allora.
Ma in quei dieci minuti i partigiani di Hezbollah sparsi da questa parte della frontiera devono aver pensato che davvero tutto era possibile, come quando i serbi, nel marzo del ’99, a Budanovci, tirarono giù un F117 americano (l’«aereo invisibile») con un missiletto da discount sovietico, e per un momento pensarono che il miracolo era davvero a portata di mano, e si potesse battere la Nato.
A Zahle, a Tarshish, lungo tutta la valle della Bekaa, appena entrati in Libano, capisci presto che sei entrato in un Paese in guerra. Camion di soldati libanesi che fanno ammuina, andando su e giù come se davvero avessero qualcosa di serio da fare (ma alzano solo polvere, come sempre); auto di gente in fuga con le valigie che scoppiano sui portapacchi dirette verso la Siria o comunque verso nord; le finestre delle case sbarrate; l’illuminazione pubblica al minimo; il silenzio e la solitudine di campagne e villaggi inanimati, dove i pochi passanti, gli impavidi che succhiano il cannello di un narghilè davanti alle bettole che elargiscono tè sembrano sopravvissuti, o sentinelle di un tifone che punta proprio in questa direzione.
Ma bisognava arrivare fin qui, nella ribollente Beirut condannata a rivivere sempre lo stesso incubo, per capire le dimensioni del baratro in cui sta precipitando il Libano sud. La città, allenata da decenni di guerra civile a convivere con la paura, la precarietà, le bombe e i massacri, è invasa da decine di migliaia di sfollati in fuga dalle bombe israeliane e dai razzi dei «guerriglieri di Dio» dello sceicco Hassan Nasrallah. «A volte ritornano», ghigna con un sorriso amaro monsieur Fuad, il vecchio farmacista che ha la bottega accanto all’hotel Cavalier, puntando l’indice verso il cielo dove si allunga la scia bianco latte di un caccia israeliano. Accanto alla farmacia, un fuoristrada nero che Hamza Shatila e suo cognato stanno inzeppando di valigie e fagotti. Hamza, 46 anni, è uno dei pochi che lascia Beirut. Con la moglie Sarah, i cinque figli, il cognato e la suocera è in partenza per Riad, in Arabia Saudita. Non fugge. Ha solo finito le vacanze. In Arabia Saudita fa il commesso in una gioielleria. «Mi dispiace andarmene proprio ora - commenta -. Perché queste sono giornate cruciali. Io sono troppo vecchio. Ma mi sarebbe piaciuto dare una mano ai ragazzi di Hezbollah che difendono il mio Paese nel sud».
Questo ripetono gli sfollati che da tre giorni bivaccano sotto le stelle nel parco pubblico di Sanayeh, a Beirut ovest. Oggi sono circa trecento, ma domenica qui ne hanno contati il doppio. Dormono su miserabili pagliericci, su materassini di gommapiuma privi di fodera, mangiano i panini che i ragazzi di un’organizzazione umanitaria gli porta, bevono e si lavano con l’acqua delle grandi taniche grigie poste all’ingresso del parco dai soldati, fanno i loro bisogni nella lurida latrina dei giardinetti.
Hanan Barri, 30 anni, cinque figli, viene da Dahi, nel sud. Il suo letto e quello dei suoi figli è un cartone smembrato che fino a ieri conteneva un grande Tv color giapponese. In braccio tiene Noor, l’ultima nata, una bambinella di 5 mesi. Dahi, racconta Hanan, è ridotta a un ammasso di rovine. «Noi ce ne siamo andati quando gli Hezbollah ci hanno detto che gli israeliani avrebbero bombardato. La rete di informazione ha funzionato. Pensavamo di trovare ricovero in una scuola, qui a Beirut; ma dicono che sono tutte occupate». «Gli alberghi sono pieni, il governo non farà nulla per noi. Non mi faccio illusioni. Il governo non è mai stato niente, per noi. Nel cuore, abbiamo solo lui, lo sceicco Nasrallah», il leader di Hezbollah, dice il fratello di Hanan, Daud.
La radio porta la notizia di nuovi bombardamenti. E di un conflitto che pare punti a coinvolgere anche le Forze armate libanesi. Le forze libanesi non fanno nulla per ripulire il sud dagli Hezbollah, che oltre tutto ostacolano la fuga della gente dal sud del Paese? La punizione arriva dal cielo. Due razzi israeliani contro una caserma libanese a est della capitale: dieci i morti. E nel pomeriggio, perché non ci siano dubbi, seconda ripassata.
I ragazzini, nel parco di Sanayeh, giocano a pallone e organizzano gare in bici sui vialetti. Non hanno tempo per compiangere il vecchio con le gambe in cancrena, o l’anziana Fatima che era venuta a Beirut da Mayss al Jabal per far visita ai parenti ed è rimasta intrappolata qui, senza notizie del marito e dei figli rimasti al sud.
Cinquecentomila sfollati, calcola l’Unicef. E il numero cresce di ora in ora, mentre i giornali di Beirut intonano il de profundis per le «rovine di una nazione». Il ministro delle Finanze Jihad Azur parla di oltre mezzo miliardo di dollari di danni.

«Ma sono stime provvisorie», geme, elencando le 38 strade e i 42 ponti distrutti, i depositi di carburante, le fabbriche e le centrali elettriche, i porti e gli aeroporti bombardati, il milione e seicentomila turisti che non verranno. Ma forse questo è solo l’inizio. «Se dovremo scatenare un attacco di terra, lo faremo», ha promesso ieri Moshe Kaplinski, numero due dell’esercito israeliano. Di solito, non è uno che parla a vanvera.

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