Il Beppe Grillo dei poveri: «Con Prodi taglio delle pensioni e Bot congelati»

Il Beppe Grillo dei poveri si chiama Eugenio Benetazzo ma, per un fatto di giustizia, i suoi genitori 32 anni fa avrebbero dovuto registrarlo all’anagrafe di Sandrigo (Vicenza) col nome Dow Jones. Per via dell’indice: come lo punta lui, non lo punta nessun altro. Contro le Borse, contro le banche, contro i politici, contro i petrolieri, contro tutti. Persino contro se stesso. Ha scritto un samizdat da 10 euro che sta andando a ruba: Duri e puri. Aspettando un nuovo 1929. Il libro si prefigge in copertina di spiegare «come salvare i propri risparmi e sopravvivere a un mutamento di scenario epocale senza precedenti». Per molto meno all’economista Paul Samuelson conferirono il premio Nobel.
Benetazzo fa il trader professionista, cioè l’operatore di Borsa indipendente. Vive sei mesi all’anno nel Veneto e sei mesi a Malta («ho portato le chiappe al sicuro nel caso che vinca la sinistra»), con frequenti soggiorni in terra elvetica. A chi gli chiede se è sposato, risponde: «Sì, con la sterlina. E mio suocero si chiama Franco Svizzero». La sua bravura, confida, «consiste nell’individuare livelli borsistici di entrata e di uscita, anche fulminea, su azioni, valute, indici e commodity», vale a dire i beni primari: grano, zucchero, cereali. In pratica è uno speculatore come Randolph e Mortimer Duke, gli spregiudicati finanzieri del film Una poltrona per due. Anzi, per essere più precisi, lui assomiglia a Billy Ray Valentine, il loro astuto manager nero interpretato da Eddie Murphy, che nel finale s’inchiappetta i due avidi vecchietti giocando d’anticipo sulle quotazioni del succo d’arancia congelato.
Però in questo momento Benetazzo è tutto preso dal nuovo ruolo di Beppe Grillo dei poveri. Gira l’Italia col suo «one man live show», spettacolo dal vivo che s’è scritto da solo e che recita da solo. S’intitola Blekgek. Ogni settimana inventa uno slogan per attirare il pubblico. A Thiene era Schiavi senza catene, alla ricerca della verità che vi renderà liberi dalla schiavitù del turbocapitalismo multinazionale. A Milano l’aveva un po’ asciugato: Duri e puri in tour. A Montegrotto Terme virava sul catastrofico: Prepàrati al peggio. Prima che tocchi tutte le 20 tappe previste – da Roma a Verona, da Piacenza a Pontedera – chissà quanti altri slogan avrà partorito la fervida immaginazione del protagonista. Il quale ovunque vada riempie le sale, anche perché il suo manicheismo lo dispensa gratis, a differenza del comico genovese che vende a 20 euro il biglietto d’ingresso meno caro.
Del resto ci vorrebbe un bel coraggio a farsi pagare dagli spettatori dopo avergli profetizzato, con un profluvio di cifre, percentuali e citazioni, l’esaurimento del petrolio, il rischio di un nuovo crac di Borsa simile a quello del 1929, il taglio delle pensioni e il blocco dei depositi bancari in caso di vittoria del centrosinistra alle elezioni del 9 aprile, il congelamento dei Bot e degli altri titoli di Stato, una super patrimoniale sulle case, l’esplosione della bolla immobiliare, nuovi disastri finanziari al cui confronto le truffe Cirio e Parmalat sembreranno marachelle da scolari. E quando non è impegnato in tournée a disegnare cupi scenari per le ansiose platee, Benetazzo tiene sermoni economico-politici su una propria emittente, Radio Wall Street, che si ascolta su Internet.
Ma quali competenze ha per fare tutto questo?
«Solo una laurea in economia aziendale conseguita all’Università di Modena e il mio lavoro in Borsa. Nessun pedigree familiare: padre dirigente di banca, madre impiegata statale».
Che significa Blekgek?
«È una storpiatura di black jack. Niente a che vedere col gioco d’azzardo: è il nomignolo con cui i petrolieri chiamano il maglio delle torri di perforazione. Tutto lo spettacolo verte sull’argomento più censurato al mondo: l’oro nero».
Censurato perché?
«Perché abbiamo raggiunto il picco di produzione del petrolio – 80 milioni di barili al giorno, pari a quasi 13 miliardi di litri – e d’ora in poi le estrazioni potranno solo calare. E se alla pianta, che è il capitalismo, viene a mancare la linfa, che è il petrolio, c’è poco da stare allegri. Per dare un’idea, quando John Davison Rockefeller, il più grande monopolista del passato, fondò nel 1870 la Standard Oil Company, l’offerta produttiva era di 5 milioni di barili l’anno. Oggi siamo arrivati a 29 miliardi di barili l’anno. Ma una quantità simile per il futuro ce la sogniamo. Per ragioni geofisiche e per problemi di raffinazione: il petrolio che resta nelle viscere della Terra è troppo ricco di zolfo».
Chi lo dice?
«Lo diceva Marion King Hubbert, geofisico della Shell, morto nel 1989, e lo conferma Colin Campbell, fondatore dell’Aspo, Association for the study of peak oil and gas, reputato il massimo esperto del settore. La produzione decrescerà bruscamente, con implicazioni macroeconomiche e sociali mai viste prime. L’offerta calerà del 3-4% l’anno, mentre la domanda continuerà a salire del 5-6%. Gli arabi dell’Opec ci hanno presi in giro sostenendo d’avere riserve per 50 anni. Ma pochi sanno che lo affermavano per loro tornaconto: più gonfiavano il dato sulle riserve e più erano autorizzati a esportare».
I «duri e puri» del suo libro chi sarebbero?
«Coloro che scelgono di fare informazione d’inchiesta. Mi sono improvvisato giornalista e opinionista, senza esserlo, per sopperire a un deficit di impegno civile della sua categoria. Gli argomenti di cui tratto nel mio show dovrebbero essere pane quotidiano a Porta a porta e nei tiggì».
Dice?
«Dico. Altrimenti non si spiegherebbe perché, da quando mi sono messo a girare l’Italia, insieme con tanti complimenti sto ricevendo anche un sacco di minacce. Tanto che a Thiene e a Pontedera la questura ha predisposto il pattugliamento del teatro».
Che cosa ci guadagna con questo show?
«Purtroppo nulla. Anzi, ci perdo».
Allora perché lo fa?
«Mi piace».
Si sente divo?
«Diciamo così. Forse un retaggio di quando, da studente universitario, facevo l’animatore nei villaggi turistici».
Che cosa le fa pensare che sia imminente un crollo delle Borse peggiore di quello che colpì Wall Street nel 1929?
«Le previsioni dei più quotati analisti indipendenti, che però non trovano spazio sui media».
Imminente quanto?
«Già il 2006 sarà molto critico. Questo lunedì s’inaugura la Iob, Iranian oil bourse, che per la prima volta nella storia quoterà il petrolio in euro anziché in dollari. Quindi gli investitori, anziché comprare un barile di brent per 60 dollari al Nymex di New York o all’Ipe di Londra, che finora sono state le due principali borse petrolifere mondiali, potranno acquistarlo a Teheran per 45 euro. L’Iran è il secondo produttore di greggio e la sua Iob ha avuto l’adesione del Venezuela, che è il terzo, governato dal marxista Hugo Chavez. È questa la vera bomba atomica che gli ayatollah stanno preparando: una caduta vertiginosa del dollaro».
Esiziale per l’economia statunitense.
«Tanto più se si considera che il deficit federale è ai massimi storici, appesantito dalle spese militari per le guerre in Afghanistan e in Irak, la seconda delle quali è già costata 250 miliardi di dollari. Si profila un brusco declino dell’egemonia planetaria della moneta americana. Questo evento, oltre che costituire un formidabile incentivo per un intervento militare contro l’Iran, farà da detonatore a un processo di deflazione valutaria, mobiliare e immobiliare. Che sarà aggravato in Eurolandia da un cospicuo rialzo dei tassi d’interesse. I due ritocchi all’insù di un quarto di punto decisi dalla Banca centrale europea il 1° dicembre e il 1° marzo non sono che un assaggio: nei prossimi nove mesi il costo del denaro è destinato a salire dal 2,50% al 3,50. Chi ha un mutuo a tasso variabile sulla prima casa cammina sull’orlo di un burrone. Nessun giornale lo ha scritto, ma in Giappone vi è stato un aumento del 35% dei suicidi: le vittime sono capifamiglia che, in seguito al rialzo dei tassi, non riescono a onorare il debito con la banca neppure vendendo l’immobile per cui hanno chiesto il prestito».
Ammesso che lei abbia ragione, che cosa consiglia al risparmiatore?
«Primo: estinguere i mutui. Secondo: fuggire da tutti gli investimenti mobiliari quotati in dollari. Terzo: comprare terreni. E oro. In questi giorni sta a 545 dollari l’oncia, due anni e mezzo fa ne valeva 200. Arriverà a 1.000».
Vabbè, ma se tutto salta in aria che se ne fa dei lingotti?
«Invece con euro e azioni che cos’ha in mano? Carta straccia. Chi erano i ricchi nel Medioevo? Coloro che possedevano terreni e oro. Fra cent’anni sarà la stessa cosa».
In alternativa?
«Comprare franchi svizzeri. La moneta elvetica è l’ultimo baluardo. Se si deprezza quella, torniamo all’età della pietra. Ma sarà l’ultima fortezza a cadere, perché è la cassaforte di multinazionali, dittatori, politici, lobbisti, mafiosi, trafficanti di armi, finanziarie di controllo e persino, non vorrei apparire irrispettoso, del Vaticano».
Franchi svizzeri? Ma se ha appena detto che le valute sono carta straccia.
«Be’, in Svizzera si possono trovare prodotti a capitale protetto e a rendimento garantito, quelli che nei Paesi anglosassoni chiamano umbrella funds: se piove, apri l’ombrello e non ti bagni».
Qualora alle elezioni del 9 aprile dovesse vincere l’Unione, che cosa accadrebbe?
«Un peggioramento della situazione competitiva del nostro Paese. Perché, da sempre, centrosinistra significa aumento della spesa pubblica e ingovernabilità politica».
È probabile a suo avviso un prelievo improvviso e coatto sui depositi monetari, come fece il premier Giuliano Amato spolpando i nostri conti correnti?
«E me lo chiede? Sarà anche più pesante, del 2-3%, altro che il 6 per mille del 1991. Tra gli Anni 70 e 90 la Dc prima e l’Ulivo poi hanno dato tutto a tutti. Adesso qualcuno deve pagare il conto. Ma quando non c’è più denaro, solo una cosa si può fare: non pagare. L’Italia non è messa meglio dell’Argentina. Quando vi fu il crac argentino, il rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo della nazione sudamericana era al 140%. Noi, nonostante il governo Berlusconi sia riuscito un po’ a ridurlo pur in presenza di una drammatica congiuntura internazionale, siamo quasi al 107. Ci servono 6 punti percentuali di Pil solo per pagare gli interessi sul debito pubblico. Ai tassi attuali».
Per cui?
«Romano Prodi taglierebbe le pensioni. In fin dei conti la Germania, che ha un rapporto deficit-Pil del 60%, le ha già ridotte del 25% e nel 2004 non ha corrisposto le tredicesime a statali e parastatali. Una bella riforma di sinistra che fu varata, senza manifestazioni di protesta né scioperi generali, dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, che aveva per ministri gente come Joschka Fischer, ex fiancheggiatore dei terroristi rossi».
Nel suo show lei paventa anche il congelamento dei Bot.
«Sì. Sarebbe già una fortuna se questi signori restituissero a tranche, nel giro di tre anni e senza interessi, il valore nominale dei titoli di Stato».
E una super tassa sulle rendite finanziarie e sulle seconde case.
«Prime, seconde, terze. Sugli immobili in generale. Una super Ici, una super patrimoniale. È una democrazia parassitaria, la nostra, non parlamentare. Con due cancri in metastasi: il sistema bancario e quello politico. Non credo che oserebbero tassare i capital gain. A meno che ministro delle Finanze non diventi Fausto Bertinotti. Da Prodi mi aspetto anche un congelamento dei depositi bancari, col permesso di ritirare dai propri conti correnti solo 200 euro la settimana. Già visto in Argentina».
E altri scandali tipo Cirio e Parmalat.
«Spenga il registratore e le faccio il nome del prossimo grande gruppo che andrà a carte quarantotto». (Spengo. Lo fa. È un gruppo davvero grande).
La sua idea è che l’Italia sia un Titanic che ha già la stiva allagata.
«Precisamente. I passeggeri di terza classe ballano, mangiano, guardano La fattoria e il Grande fratello, inseguono l’ultimo modello di telefonino, progettano le prossime vacanze, e intanto i ricchi sono già saliti sulle scialuppe di salvataggio. Il tessile-calzaturiero, la meccanica, l’oreficeria, che erano il vanto del made in Italy, sono flagellati dalla concorrenza cinese. I piccoli imprenditori, ex operai arricchiti che non hanno mai aperto un libro in vita loro, arrancano in questi comparti ormai obsoleti, non possedendo le risorse intellettuali per lanciarsi nelle sfide del futuro, che sono le biotecnologie, l’energia, l’informatica, i trasporti di terza generazione».
Che cosa suggerisce?
«Come sul Titanic, azionare le pompe, cioè introdurre dazi doganali, non basterà a prosciugare la stiva dall’acqua. Però possiamo provarci: subito il blocco totale di tutte le importazioni di manifattura orientale. Idem per i prodotti che gli imprenditori italiani fanno assemblare in Cina per poi venderli qua. E poi ci vorrebbe una super imposta sui risultati d’esercizio delle banche, così il popolo si rimette in tasca i soldi del signoraggio».
Perché ce l’ha tanto con le banche?
«Perché dovrebbero avere finalità sociali e non lucrative. Sa quale importo arriva a concedere un istituto di credito veneto al cliente che si presenta a chiedere un mutuo per l’acquisto della prima casa? Il 120%. Non sto scherzando. Ti comprano loro l’abitazione e in più ti offrono un 20% per le spese notarili, i mobili, la tinteggiatura, il trasloco e anche per la cassa da morto, aggiungo io. Ma si può? Se dieci anni fa mi fossi presentato a un direttore di banca a domandare un prestito senza avere in mano almeno il 50% del valore dell’immobile, sarei stato cacciato a calci nel sedere. Adesso è lui a insistere per riempirmi le tasche di soldi che non potrò restituire. Ieri ho ricevuto per posta una carta di credito mai richiesta: c’è sopra un fido rotativo di 2.500 euro. Dopo averli spesi, devo solo ricaricarla. Nel frattempo l’interesse è del 18%, al limite dell’usura».
Lo chiamano credito al consumo.
«Diciamocelo, una buona volta: gli italiani spendono denaro che non hanno. Si sono convinti di poter comprare a rate anche la Ferrari. I loro stipendi, prim’ancora d’essere accreditati sul conto corrente, sono già bruciati in rate per la casa, l’auto, il motorino, la Tv al plasma, il computer. È un’anomalia storica. I nostri genitori accantonavano, con sacrifici e rinunce, fieri di tramandare ai figli. Oggi i loro figli hanno sperperato la dote, devono intaccare il capitale per sopravvivere».
Comunque il mondo s’è ripreso anche dal crollo di Wall Street del ’29, mi pare.
«Dopo sei anni, però. Con la differenza che oggi sta finendo il petrolio. Viviamo in un’epoca in cui è il denaro che sposta gli uomini, non sono più gli uomini che spostano il denaro. È questa l’essenza della globalizzazione. Lo stadio terminale del turbocapitalismo».
Dopo che cosa ci attende?
«Un nuovo Medioevo. Un’era postindustriale in cui si tornerà a coltivare la terra con la zappa e il sudore della fronte. Perché lei deve spiegarmi come li muove, finito il petrolio, i trattori da 6.000 di cilindrata, 800 cavalli, 12 cilindri, e l’aria condizionata per il conducente. Mettendo i pannelli solari sulla cabina?».
E viene a dirmelo proprio lei, che vive di Borsa, quanto di più improduttivo e immateriale possa esistere?
«Esatto. Sono un parassita della società. Al pari di un politico. Però faccio meno danni».
Ha mai rovinato qualche cliente?
«Se per rovinato intende avergli fatto perdere più del 25% del capitale, no».


Quanto le basta al mese per vivere?
«Non più di 750 euro. E da due anni ho rinunciato ad avere un’auto. Altrimenti sarei incoerente».
Che cos’è il denaro per lei?
«Uno strumento per lavorare».
(324. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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