Milano Nellunica aula del tribunale di Milano dove - chissà perché - non campeggia la scritta «la legge è uguale per tutti», lo show annunciato di Silvio Berlusconi fa irruzione quando ludienza sta per cominciare. Berlusconi sbuca da una porta laterale, punta dritti i banchi della stampa, facendosi largo con fatica nella selva di avvocati a cui diligentemente porge la mano. Si ferma persino ad aggiustare la cravatta a un ragazzo lungo lungo, che è il figlio dellavvocato Daria Pesce. Ma il suo obiettivo sono i giornalisti, pigiati in fondo allaula, destinatari della puntata numero 1 della sua offensiva mediatico-giudiziaria. Non ci sono telecamere, ma in compenso ci sono gli iPhone pronti a scaraventare sul web la sua esternazione. Davanti non ha, come di consueto, la stampa parlamentare, ma quei piantagrane dei cronisti giudiziari, gente che i suoi processi li conosce per filo e per segno. Ma anche questo, naturalmente, era messo nel conto.
Nove minuti filati di domande e risposte, con i giudici chiusi in camera di consiglio che aspettano pazienti il momento di entrare in aula. Berlusconi parte da solo, senza aspettare domande: «Sono qui nello stato danimo di chi non capisce bene perché, come presidente del Consiglio dovrei essere ad occuparmi degli interessi del paese invece che a rispondere ad accuse assolutamente inventate e demenziali». Ma quando gli obiettano che i fatti di cui si parla nel processo li avrebbe commessi quando non era a Palazzo Chigi, innesta la quarta.
«Non ci sono dei fatti. Sono delle pure invenzioni dei pubblici ministeri staccate completamente dalla realtà». Parte il botta e risposta. «In caso di condanna cosa farà?». «Ma quale condanna, nemmeno per sogno, non facciamo ridere». Una parte degli argomenti sono quelli che il premier ha fatto circolare già nei giorni scorsi: i numeri stratosferici delle indagini a suo carico, le incongruenze di alcuni passaggi. Ma il piatto forte - quello che investe direttamente sia il nocciolo del processo più delicato, quanto i rapporti tra politica e giustizia - arriva quando si affronta il capitolo delle intercettazioni.
Negli atti del processo che si celebra ieri, quello per i diritti tv, non cè mezza telefonata. Ma ce ne sono, e tante, nel processo che riparte il 31 gennaio, quello per il cosiddetto «Rubygate». «Le intercettazioni non possono costituire una prova», dice Berlusconi, «specie quelle fatte quando è quasi notte, e che appartengono più al mondo onirico che della realtà. E poi lo sanno tutti che si possono manipolare, le voci si possono imitare, con i computer è possibile di tutto».
Pensa che le intercettazioni del caso Ruby siano truccate? «Parlo in generale». Ma poi fa un esempio che è preso di peso dal fascicolo del caso di Karima el Mahroug e delle ragazze di via Olgettina: «Se io dico bisogna ricostruire i fatti e invece trascrivono bisogna costruire i fatti è chiaro che il senso cambia»: Ed è esattamente quello che secondo la difesa del Cavaliere è accaduto con una delle telefonate finite agli atti, quella tra una segretaria del premier e la showgirl Barbara Faggioli, convocata per una indagine difensiva, «per cercare di costruire e verbalizzare le normalità delle serate del presidente». Secondo i legali, nel nastro in realtà si dice ricostruire. Lultimo accenno Berlusconi lo fa a lei, «Ruby»: i soldi che le vennero dati, racconta, dovevamo servire ad aiutarla ad aprire un centro estetico.
Mentre va a sedersi al suo posto, siparietto-scontro col pm De Pasquale: «Lei è quello cattivo», dice il premier, come aveva fatto alludienza preliminare Mediatrade. E il pm: «Si contenga con le battute». E Berlusconi di rimando: «Si contenga lei con le accuse». Controreplica di De Pasquale: «Le accuse sono il mio mestiere, le battute no». Poi inizia ludienza, due ore di testimonianze soporifere. Alle 15, quando si riprende dopo la pausa, il premier non cè più. Meglio così, forse, perché chissà come prenderebbe il nuovo, brusco strappo tra i suoi avvocati e i giudici. Succede che il tribunale fa a fette la lista dei testimoni a difesa indicati da Niccolò Ghedini e Piero Longo: dei 76 testi che dovevano venire in aula ne saranno citati solo 22, in nome della rapidità del processo.
Ghedini va su tutte le furie: «Prima veniamo accusati di non volerci difendere nei processi, e quando proviamo a farlo ci viene impedito calpestando i più elementari diritti della difesa. Questo processo è ormai tecnicamente morto perché, comunque vada a finire, non ci sarà una sola Corte dappello né di Cassazione disposta ad avallare quanto è stato deciso oggi».
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