Roma - «Si va ad ascoltare un po’ Bersani?». «Ma no, adesso arriva pasta e fagioli! Tanto sono sempre le stesse cose... Berlusconi, il regime, le intercettazioni». Un disco rotto, un continuo ripetere frasi fatte. E così, dal tavolo, non si alza nessuno. Sì che è un conciliabolo di sette amici di sinistra e disoccupati. Il segretario del Pd è a duecento metri. Alla trattoria di Agricoltura Nuova si mangia che è un piacere. Nemmeno un tavolino libero, tutto occupato. E nessuno molla l’osso, il piatto del giorno: patate e salsiccia. Tutti incollati alle sedie di plastica, i gomiti poggiati sulle stuoiette di carta. L’aria è appiccicosa, umida, come i tavoli che portano i segni di chi ha mangiato prima di te. È il bello della Festa Democratica, ex «dell’Unità». Condivisione. Bersani parla? Pazienza. Non si sente, forse non c’è. È troppo bello starsene qui a guardare le mura illuminate delle Terme di Caracalla.
Ormai neanche nelle partite giocate in casa Bersani riesce a catturare il suo popolo. Carlo De Benedetti per primo ha capito i suoi limiti, ma è stato il comico Maurizio Crozza a rappresentarli: nervoso, confuso, inconcludente. Cattiverie da vip? Nemmeno tanto. Dalla trattoria tocca camminare in solitudine, controcorrente, verso il palco. I ristoranti sono riempiti a festa. I posti sono esauriti. Qualcuno aspetta in piedi il turno per sedersi. Alla bancarella dei dolci siciliani il cuoco chiama i clienti con un campanello, producendo un trillo allegro e insistente. La voce del segretario non arriva. Lui parla là, la gente mangia e si diverte qui. Non sente, non sa. Non si sposta. Non ascolta.
Ecco il palco, la voce. C’è un buon numero di persone, anche se lo spazio non è enorme. Ma sono poche al confronto degli indifferenti. Neanche. Di quelli che preferiscono godersi la sera piuttosto che ascoltare Bersani. Di quelli che preferiscono divertirsi, e non si alzano.
E Bersani forse è sfiorato dalle vibrazioni della festa, sente la distanza. Ma solo dopo tre quarti d’ora. Prima parla a testa bassa di Berlusconi («è arrivato al secondo tempo, ma ora può essere pericolosissimo»). Sulle intercettazioni il Pd è pronto a «votare emendamenti» che arrivino dai «finiani». «Non mi aspetto giorni sereni»: nella fase del «ghe pensi mi sotto l’imperatore si muovono vassalli e valvassori».
Finalmente l’intervistatore Mario Orfeo pizzica il nervo sensibile: «Ma non si può parlare solo di Berlusconi. Parliamo del Pd!». C’è un momento strano di silenzio, come quando un disco che scorre fluido improvvisamente s’inceppa. Il ritornello dell’antiberlusconismo, se ripetuto troppo, stanca, stona, stride, come le canzoni che annoiano: «regime», «imperatore», «il secondo tempo del film», quante volte nelle ultime settimane, mesi. Le parole si svuotano, sempre le stesse, e non si fermano, roteano e non incantano. Bersani ammette che «anche noi siamo un po’ autolesionisti». E poi finalmente si lancia nel vuoto, in quel crepaccio. Il Pd deve iniziare «a parlare del futuro, dobbiamo dare un messaggio positivo!». Basta attacchi monocordi al nemico, litanie di decadenza. C’è una musica nuova da scrivere. Bersani l’ha capito?
Il telefonino vibra, 21.53, messaggio: «È arrivato il cibo». E così via dal palco, a ritroso per lo stesso tragitto lungo i chioschi gremiti, panini farciti, vestiti colorati e magliette con incise le frasi di Berlinguer e di Moro, le parole che alla fine resistono al tempo.
«Allora com’era il concerto di Samuele Bersani?», chiede Ivan. Tutti ridono. Anche al tavolo vicino ridono. «Ci hanno segnato tredici euro in più, prendiamo due patatine!». Poi si dimenticano tutti di Bersani Pier Luigi e di Bersani Samuele. Finché i camerieri veloci si avvicinano a un tavolo vuoto, puliscono, apparecchiano. Si sparge la voce che sta arrivando lui, il segretario del Pd.
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