Milano - Tito Boeri, nel suo ultimo libro (Contro i Giovani, Mondadori) con Vincenzo Galasso, ha definito gli under 40 una generazione di perdenti, destinata ad avere una vita più difficile rispetto a quella dei padri. Boeri si occupa di economia del lavoro, e sul tentativo di stabilizzare i tanti (il numero esatto è indecifrabile) precari della pubblica amministrazione ha una tesi originale.
«Per evitare i blocchi alle assunzioni della pubblica amministrazione, si è proceduto all’abuso di contrattazione atipica. La reazione, quando si toglie il tappo ai blocchi, diventa di segno opposto: per risolvere il problema si fanno interventi uniformi per tutti. Al contrario occorrono assunzioni mirate. In alcune amministrazioni pubbliche c’è un reale bisogno di fare assunzioni, in molte altre no».
Le assunzioni nella pubblica amministrazione hanno svolto una ruolo di ammortizzatore sociale, un modo per creare, anche se artificialmente occupazione. Esiste ancora questa necessità?
«Si è trattato soprattutto di un sistema per trasferire risorse al sud d’Italia. E ancora oggi il rapporto tra dipendenti pubblici e privati è molto più alto al Mezzogiorno che al Nord. Inoltre vi è una differenza sostanziale di costo della vita e dunque i salari reali sono più alti per i dipendenti pubblici al sud».
Piuttosto politicamente scorretto proporre oggi delle gabbie salariali.
«Non si tratta di proporre le vecchie gabbie salariali. Il metodo era sbagliato, non si può generalizzare. Ma obiettivamente la produttività al sud è mediamente più bassa che in altre aree del paese. È necessario legare le retribuzioni alla produttività. In maniera sempre più precisa, anche attraverso una più forte contrattazione aziendale. E su questo aspetto anche la Confindustria ha le sue colpe: ho l’impressione che non abbia spinto a sufficienza su questo tema».
Piuttosto rivoluzionario differenziare i salari dei dipendenti pubblici a seconda del luogo in cui hanno sede le amministrazioni.
«I tempi sono maturi, e nel settore privato abbiamo perso dieci anni. L’unico modo per risolvere i problemi del Mezzogiorno è aumentarne la produttività».
Nel suo libro parla di una generazione saltata. Quella dei giovani-adulti sotto i 40 anni. Molti di loro sono precari della pubblica amministrazione. Cosa li ha svantaggiati?
«Entrano nel mondo del lavoro in modo svantaggiato. Fino a 20 anni fa, la maggiore istruzione e lo sviluppo del sistema produttivo, faceva sì che il salario di ingresso dei giovani fosse maggiore di quello medio. Oggi è esattamente il contrario. Inoltre la progressione salariale, basata solo sull’anzianità, intrappola i giovani di oggi ad una carriera lavorativa e retribuzioni inferiori rispetto a quelle dei padri. L’ingresso nel modo del lavoro a tempo indeterminato è inoltre più difficile e lungo e dunque rende più lenta l’accumulazione dell’anzianità. Un circolo vizioso».
Come se ne esce?
«L’idea è quella di un contratto unico, in cui il livello della garanzia sale con l’anzianità. All’inizio della propria carriera lavorativa si può dunque essere licenziati con indennità basse, che crescono con il tempo».
Libero licenziamento anche nella Pubblica amministrazione?
«È più difficile. Sarebbe necessario provarci. In realtà con l’ultima tornata di rinnovi contrattuali si è andati nella direzione opposta. Si è svilito il ruolo della dirigenza e dunque ridotta la capacità di selezione meritocratica del personale».
Nella difesa delle prerogative della pubblica amministrazione sia questo governo sia il precedente hanno avuto attenzioni bipartisan. Come mai questa uniformità di comportamenti?
«C’è stata una forma di collusione tra governi e sindacati del pubblico impiego. Ai primi faceva comodo spostare nel tempo impegni di spesa e dunque i contratti non venivano rinnovati; ai secondi è convenuto procedere ad aumenti a pioggia, per tutti ed ex post, slegando la produttività dalle retribuzioni. Inoltre all’interno del sindacato, la componente pubblica ha assunto sempre più peso.
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