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Il boia racconta la famiglia da patibolo

Un Victor Hugo minore. Infatti erano amici. Un Cesare Beccaria periferico e più attento al cuore che al diritto. Infatti a Beccaria, per certi versi, il suo libro ammicca. Così potremmo definire il giornalista francese Henri E. Marquand. Ma sarebbe fargli un torto.
Se certamente fu un minore, non fosse altro che per la scarsità della sua produzione libraria che annovera soltanto un libro di viaggio (Souvenirs des Indes Occidentales) e un libello contro la pena di morte (Confessioni di un boia), Marquand era profondamente inserito nella cultura del suo tempo e, per certi versi, influente. Di lui si sa pochissimo, nacque nel 1805 e morì nel 1885. Viaggiò molto e non gradì affatto il Secondo impero di Napoleone III. Ecco perché tra il 1854 e il 1853 lo troviamo esule sull’isola di Guernsey (un fazzoletto di terra in mezzo alla Manica battente bandiera inglese) dove dirigeva la Gazette de Guernsey. Era un giornale piccolo ma combattivo nella cui redazione circolavano le migliori penne del fuoriuscitismo, tra cui proprio Hugo. E fu Hugo a contagiare Marquand con le sue tesi forti contro la pena di morte. Marquand nella sua lunga vita di viaggi e strambe avventure aveva anche fatto parte di una giuria, a Trinidad, che la pena capitale l’aveva comminata. Leggendo, però, le appassionate articolesse contro le esecuzioni che Hugo scriveva proprio per la Gazette il direttore della medesima si «convertì». E decise di pubblicare, nel 1875, le Confessioni di un boia che ora arrivano per la prima volta in Italia grazie al colto interessamento di un piccolo e appena nato editore: Endemunde (volume a cura di Gianni Gambarotta, pagg. 110, euro 9,40).
Se Beccaria (o chi per lui, magari un Verri) ha il piglio del teorico, Marquand ha quello del giornalista che indaga la realtà, dal basso e sporcandosi le mani. Non parla di pena di morte e basta, va a casa di un boia, il signor Sanson, discendente da una lunga tradizione di boia parigini (il mestiere, peraltro redditizio, si passava di padre in figlio) e si fa raccontare tutto sul suo mestiere. Ecco così aneddoti, drammi e follie della pena di morte diventare narrazione viva. La storia di una famiglia «da patibolo» diventa la dimostrazione lampante del perché lo Stato non può e non deve uccidere i suoi cittadini, neanche i peggiori. Sono gli stessi esecutori materiali (oltre a Sanson ne parlano suo padre e i suoi assistenti) a raccontare di ghigliottine inceppate, rimorsi, condanne sbagliate, dell’orrore dell’attesa, di come la tecnologia non sia meno feroce delle atroci pene di un tempo. E se l’Hugo de Le Dernier Jour d’un condamné ha la forza del grande scrittore romantico e crea empatia nel lettore, Marquand è capace di affastellare orrori con una narrazione modernissima e fintamente fredda.

Nella sua asciuttezza mette in pagina anche il dolore e la solitudine del boia: «Noi siamo uomini come tutti gli altri; abbiamo passioni, affetti, amicizie, amori, come chiunque altro. Certo, a volte abbiamo funzioni terribili da espletare...».
Perché Marquand per primo capì che nessuno è più vittima della pena capitale del boia che la esegue...

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